autismo 2 aprile
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Blu ogni giorno

Domani dirò una manciata di cose al WordCamp Torino che è un evento “tutto intorno a WordPress” che è poi anche la piattaforma su cui ho creato e scrivo questo blog.

In mezzo a persone che parlano di cose molto tecniche ci sarà spazio per altri interventi tra i quali anche il blogging come scelta personale e/o lavorativa e lì, in dieci minuti o poco più, dirò che c’è sempre spazio per un blog nuovo e che è meglio un blog in più di uno in meno.

Dirò che non bisogna essere bravi a scrivere né avere paura che tutto sia stato già detto e scritto e che la propria voce non interessi a nessuno, che si scrive meglio continuando a scrivere e che gli orizzonti, le possibilità di contatto con persone e mondi affini ma anche con chi la pensa diversamente sono una sorpresa da non farsi mancare.

L’autismo ha bisogno di parole e non tutte concentrate in una giornata, il 2 aprile di ogni anno.

Aprite un blog e parlate di autismo nel modo che preferite: proteggete la vostra identità o non fatelo, condividete quello che sapete e quello che vorreste sapere sull’autismo, usatelo come modo di riordinare i pensieri che si aggrovigliano in testa. Anche se pensate di non riuscire a scrivere e anche se pensate di non aver tempo per fare anche questo.

Diteci che cos’è la vita con l’autismo, anzi, la vita con gli autismi, fatelo per voi stessi e per chi sta cercando informazioni e parole in cui riconoscersi mentre aspetta una diagnosi, raccontate figli piccoli e figli grandi: io vi leggerei volentieri per avere un’idea di che cosa sarà il nostro futuro ora che la Bruna ha solo sei anni e mezzo.

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Parlare di autismo con o senza Robert De Niro

Robert De Niro ha un figlio autistico. Mi dispiace parecchio che l’attenzione su De Niro si sia spostata tanto su questo particolare e non sul gesto sano e prezioso di non inserire nel programma del Tribeca Film Festival il film di Andrew Wakefield “Vaxxed”, punto di vista e discussione che non dovrebbe interessarci più e comunque non se proveniente da chi ha inventato dei dati per dare corpo a una teoria.

Sono una discreta gossippara ma non al punto di interessarmi della vita privata di De Niro, quindi non ho in mano prove che mi possano rivelare se abbia nascosto l’autismo di suo figlio per tutto questo tempo oppure no, limitandosi a vivere come fanno tante altre famiglie, senza negare ma senza nemmeno confermare.

Lo avesse fatto davvero non sarei d’accordo e mi dispiacerebbe, ma vorrei sentire dalla voce di De Niro le motivazioni, anche quelle di sua moglie. Più di ogni altra cosa, spero che De Niro diventi una voce importante che aiuti a creare una maggiore consapevolezza sul mondo dell’autismo.

Ne abbiamo bisogno ovunque e tanto anche in Italia, dove la giornata di aprile 2016 dedicata all’autismo ha (per la Rai), perfetta incarnazione in un video che non spiega nulla sull’autismo e anzi, mostra un bambino probabilmente neurotipico intrappolato in una bolla da bucare, sgonfiare, per liberarlo e renderlo normale, come tutti noi, senza quella cosa attorno, naturalmente con la forza dell’amore di una madre che prima forse non aveva capito e amato abbastanza. Senza padre, così negato e in negazione da non far parte nemmeno del quadro. Senza nessun altro.

Quanto sia lesivo dell’identità e della dignità di ogni autistico e di chi lo cresce è difficile e doloroso da spiegare: non c’è bolla perché non c’è nessun bambino normale nascosto dietro l’autismo. L’autismo è definito pervasivo non a caso, perché pervade l’individuo e condiziona ogni aspetto della sua vita. Il mio compito di genitore è di cercare di migliorare la vita di mia figlia, non di sommergerla di interventi che la portino più lontana possibile dell’autismo, senza autismo. Forse la differenza non si percepisce ma c’è: è il presupposto che la crea.

Non mi interessa nemmeno guardare l’autismo e vederci un mostro, un nemico da combattere, una presenza molesta. Mi rendo conto che per me sia più facile perché che ho una figlia dell’autismo più lieve — su questa definizione ambigua dovrei aprire un quadro per farvi capire chi sia mia figlia svelandone ogni aspetto, anche quello più intimo, cosa che non ho intenzione di fare proprio perché ho rispetto della sua identità — per quanto segnato da evidenti difficoltà cognitive che al momento non la rendono affatto vicina a una autonomia ragionevole, ma questo rimane il mio punto di vista: dire che odio l’autismo è dire che odio lei. Non è così.

Più ne capisco, più sono consapevole e lo sforzo per migliorare la sua vita diventa un impegno a far capire che lei è diversa, non meno degli altri (different, not less). Che impara, a un passo diverso e più lento, ma impara. Che non le servono commiserazione e carezze sulla testa ma persone che le si siedano accanto e la aiutino a dare il meglio di sé. Di persone che non la guardino come un fenomeno tenero e buffo ma che si sforzino di comunicare con lei e magari la smettano di parlarmi di lei quando lei è lì accanto, come se non esistesse e, peggio, come se fosse incapace di capire.

E non voglio essere sola, perché non lo sono e non dovrebbe esserlo nessuno: voglio una scuola partecipe dell’inclusione di mia figlia, interventi che abbiano senso e che siano riconosciuti da questo paese, medici attenti, scrupolosi e che siano i primi a dire che un intervento precoce è la cosa migliore che può capitare nella vita, non aspettare e tremare alla vista di un figlio diverso sperando che una mattina si svegli e dica mamma e papà con il contatto oculare perfetto.
Non voglio il film di Wakefield nella mia vita. Voglio educazione alla diversità, presa di coscienza, cultura, quella che serve a capire che una diagnosi non è uno stigma. Voglio una traduzione italiana di Neurotribes e non l’ennesimo racconto di un bambino magico. Inclusione, non bolle che isolano e dividono.

De Niro in questo senso ha fatto una cosa ottima, come dice anche questo pezzo su Forbes: insistere dando ascolto a Wakefield avrebbe di nuovo spostato la discussione lontano dalle persone autistiche e dalle loro necessità e di nuovo le avrebbe mostrate come neurotipici interrotti e non “come individui con una neurobiologia diversa, che può essere una disabilità ma che contribuisce anche alla loro unicità”.

Rispetto, non curiosità morbosa, interesse e non commozione è quel che dobbiamo a ognuno di loro, l’unico modo di festeggiare un 2 aprile sensato e che lasci un segno, per quanto piccolo.

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autismo e lavoro in piccolo gruppo per favorire la capacità di relazionarsi
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In piccolo gruppo

Un nuovo inizio, un passaggio importante: dagli interventi uno a uno, da sola con la terapista di turno, ora la Bruna passa al lavoro in piccolo gruppo.

All’inizio di questo percorso non mi era chiaro perché tutti quelli più esperti di me mi dicessero di provare a essere presente in stanza durante ogni ora di terapia. Mi dicevo che in fondo gli esperti erano loro, che avrebbero saputo cosa fare con mia figlia e io non avrei avuto motivo di partecipare.

Tre anni dopo so che essere partecipi, almeno ogni tanto, è un mattone fondamentale nel cammino di crescita e apprendimento di tutta la famiglia. Non è questione di controllo e sorveglianza. Io e David ci siamo adeguati di buon grado a non essere in stanza perché dopo ogni ora di logopedia e neuropsicomotricità ci viene descritto cosa è stato fatto, le relazioni scritte arrivano di frequente e le terapiste partecipano a tutte le riunioni di gruppo: c’è collaborazione e scambio e se così non fosse sarei meno contenta di passare le ore in un corridoio in attesa di mia figlia, settimana dopo settimana.

Ma è abbastanza? Cosa conta davvero, alla fine? Quel che fa la differenza è che la Bruna prenda quelle competenze che assorbe in compagnia di un adulto e le trasporti, generalizzando l’apprendimento, nelle sue altre ore, quelle di vita di tutti i giorni.

Dal mio punto di vista è anche per questo motivo che più i genitori sanno cosa succede in terapia, più sono in grado di essere utili al proprio figlio, anche se purtroppo questa è la linea di confine oltre la quale si rischia di sentirsi dire di fare i genitori e non i terapisti.

Apprendere e generalizzare, per una bambina autistica come la Bruna, non è un passaggio semplice, anzi. La relazione con l’adulto va bene perché l’adulto è paziente, l’adulto aspetta e ascolta. Ma un bambino è un bambino: lasciando perdere le prese in giro o le cattiverie assortite, un bambino è per natura impaziente, non ha tempo né spazio per aspettare mia figlia che ha bisogno di organizzarsi e fare forza su se stessa ogni volta che vuole tentare un approccio, fosse anche solo per chiedere “come ti chiami?”

Abbiamo aspettato e aspettato e forse i tempi sono stati anche troppo diluiti ma alla fine ci siamo: a fianco delle sessioni in solitaria adesso arriveranno quelle in piccolo gruppo, le radici per crescere e scoprire cosa significhi davvero la parola relazione.

Perché il punto è questo e mi riesce difficile spiegarlo: non voglio cambiare mia figlia. Non voglio normalizzarla. Non voglio tirare fuori il bambino neurotipico che c’è in lei perché quel bambino neurotipico non esiste: è sogno, illusione, fantasia. Però voglio darle i mezzi per arrivare a testare con cuore e cervello che cosa significhi entrare in una relazione con un suo coetaneo per poi decidere con elementi alla mano quale sia la vita che desidera. C’è dignità anche nella solitudine (relativa), ma solo se conosci il sapore di quel che ti è stato offerto su un altro piatto. Perché sei stato in grado di scegliere e la differenza è tutta qui.

Per fare questo c’è bisogno di allenarsi: se la Bionda esce di casa e le basta guardarsi intorno e respirare per fare suo il mondo, per la Bruna questo non è un automatismo o è un automatismo molto inceppato. Bisogna che qualcuno le si sieda accanto e le spieghi come fare ma c’è bisogno che lì accanto ci sia qualcuno come lei: un altro bambino.

Tra un paio di settimane o poco più cambierà tutto: la neuropsicomotricità diventerà anche di gruppo, il nuoto sarà in gruppo (con la vicinanza della sua insegnante di riferimento), la logopedia probabilmente uscirà dalla stanza e si trasferirà direttamente a scuola, buona occasione anche per le maestre per vedere, apprendere, riproporre.

L’inclusione non è fatta di gesti clamorosi ma è anche questo: uscire da una stanza ed entrare nel mondo.

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