raccontare la disabilità dei propri figli
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Il diritto di raccontare qualcun altro

Sono la voce di mia figlia? Non credo. Sono una spettatrice della sua vita, molto coinvolta per ragioni ovvie: la disabilità non c’entra granché o almeno non sempre. Scrivo dopo aver letto il post molto appuntito di Amy Sequenzia, scrittrice autistica molto nota nel giro, che non usa giri di parole e accusa buona parte dei genitori che parlano online dei propri figli di essere a caccia di popolarità e basta. Sequenzia dice: anche se sono i vostri figli la loro disabilità non vi riguarda proprio del tutto, non si tratta di voi ma di loro e non avete alcun diritto di parlarne.

C’è un però e Amy Sequenzia lo individua molto bene: potete parlare dei vostri figli se li rispettate, se lo fate in modo anonimo, se chiedete permesso a loro, se evitate di condividere con il mondo ogni momento della loro disabilità, anche quello più privato, anche quello peggiore.

Salto alle conclusioni e poi riprendo: sono d’accordo quasi su tutto, ma non lego la questione alla sola disabilità. Il mondo è pieno di blog di genitori molto attivi anche su Facebook e altri social e più di qualcuno condivide momenti che in futuro potrebbero imbarazzare moltissimo i bambini di oggi. Sono per la libertà di scelta e sono la prima a mettere online fotografie e momenti delle mie figlie, a volte in maniera scriteriata (ben vengano i post-bacchettate come quello di Amy Sequenzia), a volte con i filtri più opportuni che cambiano mentre loro crescono, e credo che ci sia un confine oltre il quale si lede davvero la privacy ma ancora di più la dignità di un bambino che è pur sempre una persona.

Faccio un esempio tornando alla disabilità di mia figlia. La mia logica è semplice: se condivido un episodio della sua vita, mettiamo un meltdown (per i non addetti, un momento di crisi intensa causato per esempio da sovraccarico sensoriale, cosa molto diversa dal capriccio), è necessario che io condivida un video o una foto o che descriva nei dettagli cosa succede durante quel momento? Non ha senso, non è utile. Se il mio scopo è aiutare un altro genitore meno esperto a gestire una crisi di questo tipo allora parlerò di come ho imparato a riconoscere quello che la anticipa e la scatena e che strategie metto in atto per gestirla al meglio. Vale lo stesso anche per genitori e persone che non conoscono e non vivono la disabilità: vedere un meltdown è voyeurismo e chi vuole conoscere un po’ meglio l’autismo non ha certo bisogno di vederlo in azione nei suoi aspetti più complicati.

Diciamo che in generale sono d’accordo con Martina Fuga che parla proprio dello stesso post della Sequenzia: la domanda giusta non è se scrivere dei propri figli ma come scriverne. Ne approfitto per tornare all’autismo.

Il giorno che ho deciso di virare questo blog sul racconto di un autismo è stato subito dopo aver avuto la diagnosi della Bruna. Non ci ho ragionato, ho chiesto a David “posso?” e sono partita da lì. In quel momento era un modo di mettersi a posto in un colpo solo: sapevo che sarei stata letta da amici e conoscenti e mi sembrava un modo semplice ed efficace per mettere tutti al corrente della cosa.

Poi è diventato di più perché mi sono messa a cercare e non trovavo quello che volevo. L’ho trovato all’estero, dove per ragioni meramente numeriche ci sono più genitori che raccontano l’autismo dei propri figli: in Italia trovavo un po’ di voci note (Nicoletti, per esempio), e solo alcune mi facevano sentire a mio agio o mi informavano. Oscillavo tra due tipi di racconto, quello tecnicissimo di alcuni blog e siti e quello romanzato di altri siti e libri e ho scelto la mia via pensando che forse condividendo le tappe di una disabilità come l’autismo – il sospetto, la scoperta, la gestione – e le mie reazioni di madre, più o meno melodrammatiche, forse qualcuno si sarebbe rivisto e ne avrebbe tratto qualche conforto e aiuto. Qualcun altro, forse, avrebbe capito meglio che autistico tante volte non significa geniale né tutto l’opposto ma che ci sono delle sfumature e una di quelle sfumature è mia figlia.

Credo di farle un torto? Voglio credere il contrario ma sono pronta a ricredermi e a provvedere se e quando lei non sarà d’accordo. Vorrei che ci fossero più racconti di vita quotidiana con la disabilità, non solo gli highlight del peggio e del meglio che la disabilità regala, così come vorrei che ci fossero più blog di papà che raccontano come si ridefinisce un ruolo così importante e come la paternità vissuta consapevolmente abbia effetti a cascata su tutta la vita della famiglia. Così è la disabilità: non se ne sta lì da sola ma vive, si mescola, influisce su chi ha attorno e viene influenzata da chi ha attorno.

Mi chiedo: come posso tenere per me una cosa così e poi lamentarmi se attorno a me non trovo condivisione o inclusione? Vale sul blog come nei rapporti quotidiani in carne e ossa: come posso evitare gli sguardi su mia figlia se rifiuto di condividere quel che è (un problema specifico dei casi in cui la disabilità non si vede a occhio nudo e a prima vista)? Ha senso pensarla così? Cosa posso pretendere se non do? Non ho risposte certe ma se per ogni mail o commento che mi ha detto “ora so qualcosa di più dell’autismo” o “mi fa piacere aver trovato qualcuno che prova quel che provo io” ho sacrificato un pezzo di privacy di mia figlia non sono sicura che questa cosa mi dispiaccia.

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inizi e partenze: un anno di interventi per l'autismo e cosa faremo nel 2016
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Arrivi, partenze: cosa abbiamo fatto, cosa faremo

Questa mattina Facebook mi ha fatto vedere una foto della Bruna a 18 mesi e mezzo: aveva appena imparato a camminare, proprio a Natale di qualche anno fa. Tranne qualche domanda fisiologica su questo ritardo rispetto alla norma non c’erano nuvole nel nostro cielo. Anzi, c’erano ma erano molto in alto e di passaggio rapido, a non stare attenti si era quasi sicuri di perdersele.

È andata così. Un anno e mezzo dopo il sospetto era certezza con tanto di diagnosi e iniziava il cammino fatto di interventi e test, di riunioni e confronti, di ricerca sul web per capire cosa fare e come fare di più, per smorzare quella nenia che mormora in testa che “non stai facendo abbastanza per tua figlia”.

Una cosa che ho imparato vivendo l’autismo è che gli interventi disponibili crescono quanto più li cerchi, da quelli più scientifici a quelli che ti fanno venire molte domande nella testa. Noi abbiamo scelto: logopedia, neuropsicomotricità, ABA. Tutto il resto, mandare a cavallo nostra figlia o farle fare un po’ di movimento lo consideriamo svago, qualcosa che le piace fare e la entusiasma e forse ne migliora qualche capacità o anche solo l’umore ma non ci sentiamo di promuoverlo al rango di “terapia”, anche se per convenzione potreste sentirmi usare una parola come “pet therapy”.

Perché la Bruna fa logopedia

Intanto perché è l’unica cosa che ci passa l’ASL e qualcosa di quasi gratuito non lo buttiamo via. All’inizio non era molto chiaro: nella mia mente pre-autismo la logopedia era una cosa che insegnava a pronunciare bene le parole, stop. Solo che mia figlia aveva un problema: non parlava. Non parlando, non potevamo essere sicuri che capisse quello che sentiva, anche se ovviamente i bambini hanno molti modi di comunicare quel che hanno da dire.

Per esempio: se la Bruna aveva fame piangeva, piangeva molto, lei che non piangeva quasi mai, e quello era il suo modo disperato per dirci vi prego, datemi qualcosa, non ci vedo più dalla fame. Chi ci è passato sa cosa vuol dire giocare al tiro al bersaglio cercando di comprendere un bisogno che non ha parole per raccontarsi.

Poi è venuta la fase “fai da te”: se la Bruna aveva fame o sete partiva verso il frigo per procurarsi da sé il cibo o l’acqua, al massimo mostrava il suo bicchiere dicendo “apa”. Dov’è l’errore? L’errore è scambiare per autonomia la capacità di aggirare l’incapacità di parlare: così, invece di incoraggiarla a parlare la assecondavamo e lei non migliorava mai. Non ringrazierò mai abbastanza E., amica di Facebook e mamma di bambini autistici, che ci ha insegnato i primi rudimenti di ABA: questa è una storia che riprenderò dopo.

A che sarebbe servita la logopedia, allora? Quel che non sapevo è che prima della logopedia c’è una valutazione foniatrica e che se tutto va bene il foniatra capirà la situazione e studierà con il logopedista come impostare l’intervento: dalla valutazione della Bruna era chiaro, aveva bisogno di lavorare sulla parte cognitiva e così è stato per tre anni. Solo da poco è iniziato un piccolo lavoro che punta a migliorare la sua capacità di pronunciare bene le parole.

Perché si vedono risultati? Perché la logopedia non è un percorso solitario ma inserito in un programma a cui collaborano e partecipano tutti i terapisti e gli insegnanti della Bruna, con scambi di informazioni e riunioni periodiche coordinate dalla psicologa dell’ASL (tutto gratis, dunque). Nel tempo mi sono resa conto che la nostra è una situazione non scontata e che siamo stati fortunati, “capitati bene”, come si dice da me. Dovrebbe essere la norma e non lo è: ai genitori all’inizio di questo percorso consiglio di cuore di battersi per avere un punto di riferimento, un coordinatore, oltre a un buonissimo patronato che segua tutte le pratiche burocratiche.

Quello che non va – mio parere personale – è il coinvolgimento della famiglia nel percorso di logopedia. La Bruna lavora in stanza con la logopedista che ci dà sempre informazioni sui lavori in corso ma il punto è che noi non siamo mai in stanza con lei e questo non è un dettaglio da poco. Per il poco che ho imparato, i genitori non sono solo problemi potenziali ma soprattutto i primi attori nel creare possibilità di miglioramento per i propri figli ma, essendo genitori, si affidano all’istinto e l’istinto purtroppo non è la risposta corretta: la “riabilitazione” è un percorso che coinvolge tutti e ai genitori vanno dati i mezzi per fare qualcosa anche al di fuori di quell’ora di terapia settimanale che è niente, che non si qualifica nemmeno come minimo sindacale.

La terapia è fare qualcosa in ogni momento e come si è capito io non sono dalla parte di chi mi incoraggia a “lasciare vivere” mia figlia: tra l’essere presenti e sapere come fare e forzare la natura di una persona c’è un abisso e il ponte che collega le due sponde è la consapevolezza di quel che si sta facendo, una cosa che ogni terapista che fa bene il suo lavoro non ignora, in particolare quando si parla di ABA (giuro, ci arrivo tra poco).

Cosa farà la Bruna nel 2016? Continuerà a fare logopedia dove la fa ora fino all’inizio delle elementari, poi la farà vicino a casa: abbiamo chiesto il trasferimento per ragioni pratiche – il centro attuale è abbastanza distante da casa nostra, quello nuovo sarà a pochi minuti e i logopedisti sono a due porte di distanza dalla psicologa che coordina i lavori – e anche perché prima dell’intervento verrà fatta una valutazione delle necessità della Bruna e i logopedisti decideranno, per esempio, se lavorare con lei in classe, ipotesi che mi sembra interessante. Vedremo.

La Bruna e la neuropsicomotricità

Vale tutto quel che ho appena detto per la logopedia, compresa la mia idea pre-autismo che fare neuropsicomotricità fosse fare una pseudoginnastica. Anche in questo caso tutti sanno cosa fa la Bruna con la sua bravissima terapista, anche in questo caso purtroppo noi non partecipiamo. In questo caso il loro feeling intenso e i risultati sono abbastanza per farci dire che va bene così e si può continuare.

Cosa farà la Bruna nel 2016? Un percorso di psicomotricità di gruppo affiancato a quello individuale. È ora, perché le sue aree più deficitarie, linguaggio e socializzazione (non a caso, perché una agevola l’altra), hanno bisogno di migliorare in un contesto in cui la Bruna abbia a che fare con altri bambini. Speriamo si riesca a fare: le premesse ci sono ma un po’ conta anche il caso, cioè la presenza di bambini con cui si possa creare il gruppo giusto.

ABA: perché, con chi, in che modo

Facciamo ABA da un anno e mezzo circa e, senza togliere nulla al valore degli altri interventi, credo di poter affermare che è stata la scelta migliore per tutti. Ho iniziato a sentirne parlare il giorno dopo aver avuto la diagnosi della Bruna quando sono stata travolta, soprattutto su Facebook, da genitori più informati di me che me la consigliavano senza se e senza ma. Non è una soluzione magica, giusta per tutti, ci sono motivi per cui potrebbe non esserlo e anche il costo è una variabile che ha il suo peso visto che è un intervento che si paga di tasca propria, almeno qui da noi.

Purtroppo in rete e altrove di ABA si parla spesso in termini generici e poco comprensibili: non aiutano quei post che le conferiscono un che di magico o che addirittura le attribuiscono l’aver “salvato un bambino dall’autismo”, affermazione disgustosa e irrispettosa della natura di una persona.

Io e David siamo arrivati all’ABA sapendo che non stavamo facendo abbastanza per nostra figlia e perché l’idea di un intervento – non di una terapia, qui le parole valgono tanto oro quanto pesano – che si basa sull’analisi del comportamento e che punta a coinvolgere tutta la famiglia ci sembrava la soluzione giusta per i bisogni specifici della Bruna.

Il primo passo è stato cercare la persona giusta: l’abbiamo trovata dopo molte ricerche e grazie al solito passaparola che ci ha fatto conoscere F., psicologa e analista del comportamento BCBA, cioè certificata. Non è abbastanza per scegliere una persona: ci ha convinti la sua disponibilità e la sua chiarezza durante le lunghe telefonate preliminari, la rassicurazione che avremmo lavorato tutti insieme per il bene della Bruna, le spiegazioni sulla sua visione dell’ABA e sul lavoro fatto negli anni insieme ad altri bambini più o meno grandi.

Non ho interesse a promuovere nessuno, F. lavora già parecchio di suo e non ha bisogno di me: ci tengo però a dire, come lei stessa ci ha detto nelle nostre prime conversazioni, che le famiglie hanno tutto il diritto a voler sapere tutto e tutto l’interesse a essere coinvolte al 100% nell’intervento che riguarda il bambino ma anche il mondo che lo circonda. È anche il motivo per cui il lavoro di F. viene fatto anche a scuola, insieme al sostegno, grazie a una preside che non teme la partecipazione di figure esterne che non sono lì per interferire ma per aiutare e agevolare un lavoro complesso come l’inclusione.

La nostra scelta è stata l’ABA home-based (quindi nessun intervento ulteriore a casa o in un centro), anche per evidenti motivi economici, perché non è un mistero che l’ABA non sia a buonissimo mercato: questo significa che incontriamo F. circa una volta ogni uno o due mesi, che nella giornata che passa con noi lavora con la Bruna e verifica cosa abbiamo fatto e cosa ha fatto e ci dà indicazioni per proseguire. Nel resto del tempo la sentiamo via mail o al telefono per chiarirci dubbi e farci dare altre indicazioni.

Funziona? Nel nostro caso – lo ridico, nel nostro caso – funziona. In un anno e mezzo di lavoro complessivo i risultati sono evidenti e lo sono stati soprattutto alla luce della valutazione neuropsichiatrica che comparata a quella di due anni fa mostra quasi un’altra bambina. Le difficoltà ci sono e sono molte, soprattutto nel reparto autonomie ma tutto ci dice che andiamo nella direzione giusta.

Per parlarne in maniera un po’ più approfondita, poi, c’è questo post di Alberto che si chiama Io sono per l’ABA “family based” che dice cose molto interessanti e che condivido.

Sono soddisfatta?

Mai, non posso negare l’evidenza. Vorrei avere più soldi per fare di più e vorrei che l’ABA diventasse un intervento effettivamente passato per via pubblica, che ci fossero più terapisti aperti alla condivisione e meno persone ancora in grado di farti sentire madre frigorifero e farti perdere tempo prezioso a guardarti l’ombelico invece di guardare con obiettività tuo figlio.

Meno maestri timorosi e pediatri incerti, più neuropsichiatri in grado di raccontare il proprio lavoro e a far capire di essere dalla stessa parte della famiglia e non in trincea, contro i genitori.

Auguri a tutti per un 2016 migliore in cui l’autismo esca un po’ di più dalle nostre case e si faccia conoscere per quel che è.

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Non sei tu, sono io

La Bruna sta facendo la sua valutazione neuropsichiatrica. Se non siete pratici di questa roba: è un momento impegnativo ma anche divertente per chi è protagonista dei vari test (in questo caso, PEP3 e WPPSI-III), sono quasi tutti giochi e il bravo neuropsichiatra sa che deve alternare test e momenti di depressurizzazione del bambino lasciandogli scegliere un’attività a lui gradita. La Bruna non si tira mai indietro, abituata com’è alle sessioni a tavolino: tiene duro, lavora, si scazza solo quando i test salgono di difficoltà e diventano problematici per lei.

Il mio consiglio è di essere in stanza o di avere la possibilità di seguire i test da monitor perché, tra altre ragioni interessanti, è un momento utile anche per il genitore. Perché te ne devi stare zitto. Finché va tutto bene è tutto molto bello, ti senti sereno e anche un po’ orgoglioso e soprattutto ti sembra che tutti quei soldi andati via negli anni siano stati spesi bene.

Quando non va tanto bene è una sudata. Vuoi intervenire ma non puoi. Vuoi spiegare che la parola che doveva dire l’ha detta ma l’ha detta così male e così piano che tu dottore non l’hai capita. Che ok, quel gioco lì non lo sa fare ma guardi, dottore, a quell’altro gioco là è brava. Vuoi proteggere, soprattutto te stesso, ma da che cosa? Dalla visione del fallimento di tanti tuoi sogni di madre, provando come sempre a evitare che il pensiero prenda ogni volta quel binario laterale, per esempio quando la figlia brillante e arguta di un’amica ti dice che da grande farà l’etologa e tu ti chiedi se tua figlia saprà mai cosa significhi la parola “etologa”.

La maternità di una figlia disabile mi ha tolto una fetta di quello che come tipica-mamma avrei potuto e desiderato fare, perfino la madre degenere che celebra con una punta di sarcasmo i guizzi di geniale follia del proprio figlio. Infatti non perdo occasione di farlo con la Bionda, patetica rivalsa sui grandi “no, questo no” che riguardano la mia figlia maggiore.

Il cognitivo, se non si è capito, è la parte che più mi offende di tutta questa storia di autismo: leggere, osservare, sapere, capire, riflettere, imparare a farlo non sono dettagli marginali. Vorrei che mia figlia potesse fare quel che ho avuto l’opportunità e la fortuna di fare io e duplicarlo, centuplicarlo, farlo mille miliardi di volte meglio di me. E invece?

E allora che si fa? Non lo so: sì, la psicoterapia per me mi pare una strada valida. Un altro giorno, però. Per ora, senza sapere perché, volevo solo dire a chi passa di qui di non dimenticare che chi racconta questa storia sono io: lei, forse, la racconterebbe e la racconterà a modo suo, in modo molto diverso dal mio.

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