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Parlare di autismo con o senza Robert De Niro

Robert De Niro ha un figlio autistico. Mi dispiace parecchio che l’attenzione su De Niro si sia spostata tanto su questo particolare e non sul gesto sano e prezioso di non inserire nel programma del Tribeca Film Festival il film di Andrew Wakefield “Vaxxed”, punto di vista e discussione che non dovrebbe interessarci più e comunque non se proveniente da chi ha inventato dei dati per dare corpo a una teoria.

Sono una discreta gossippara ma non al punto di interessarmi della vita privata di De Niro, quindi non ho in mano prove che mi possano rivelare se abbia nascosto l’autismo di suo figlio per tutto questo tempo oppure no, limitandosi a vivere come fanno tante altre famiglie, senza negare ma senza nemmeno confermare.

Lo avesse fatto davvero non sarei d’accordo e mi dispiacerebbe, ma vorrei sentire dalla voce di De Niro le motivazioni, anche quelle di sua moglie. Più di ogni altra cosa, spero che De Niro diventi una voce importante che aiuti a creare una maggiore consapevolezza sul mondo dell’autismo.

Ne abbiamo bisogno ovunque e tanto anche in Italia, dove la giornata di aprile 2016 dedicata all’autismo ha (per la Rai), perfetta incarnazione in un video che non spiega nulla sull’autismo e anzi, mostra un bambino probabilmente neurotipico intrappolato in una bolla da bucare, sgonfiare, per liberarlo e renderlo normale, come tutti noi, senza quella cosa attorno, naturalmente con la forza dell’amore di una madre che prima forse non aveva capito e amato abbastanza. Senza padre, così negato e in negazione da non far parte nemmeno del quadro. Senza nessun altro.

Quanto sia lesivo dell’identità e della dignità di ogni autistico e di chi lo cresce è difficile e doloroso da spiegare: non c’è bolla perché non c’è nessun bambino normale nascosto dietro l’autismo. L’autismo è definito pervasivo non a caso, perché pervade l’individuo e condiziona ogni aspetto della sua vita. Il mio compito di genitore è di cercare di migliorare la vita di mia figlia, non di sommergerla di interventi che la portino più lontana possibile dell’autismo, senza autismo. Forse la differenza non si percepisce ma c’è: è il presupposto che la crea.

Non mi interessa nemmeno guardare l’autismo e vederci un mostro, un nemico da combattere, una presenza molesta. Mi rendo conto che per me sia più facile perché che ho una figlia dell’autismo più lieve — su questa definizione ambigua dovrei aprire un quadro per farvi capire chi sia mia figlia svelandone ogni aspetto, anche quello più intimo, cosa che non ho intenzione di fare proprio perché ho rispetto della sua identità — per quanto segnato da evidenti difficoltà cognitive che al momento non la rendono affatto vicina a una autonomia ragionevole, ma questo rimane il mio punto di vista: dire che odio l’autismo è dire che odio lei. Non è così.

Più ne capisco, più sono consapevole e lo sforzo per migliorare la sua vita diventa un impegno a far capire che lei è diversa, non meno degli altri (different, not less). Che impara, a un passo diverso e più lento, ma impara. Che non le servono commiserazione e carezze sulla testa ma persone che le si siedano accanto e la aiutino a dare il meglio di sé. Di persone che non la guardino come un fenomeno tenero e buffo ma che si sforzino di comunicare con lei e magari la smettano di parlarmi di lei quando lei è lì accanto, come se non esistesse e, peggio, come se fosse incapace di capire.

E non voglio essere sola, perché non lo sono e non dovrebbe esserlo nessuno: voglio una scuola partecipe dell’inclusione di mia figlia, interventi che abbiano senso e che siano riconosciuti da questo paese, medici attenti, scrupolosi e che siano i primi a dire che un intervento precoce è la cosa migliore che può capitare nella vita, non aspettare e tremare alla vista di un figlio diverso sperando che una mattina si svegli e dica mamma e papà con il contatto oculare perfetto.
Non voglio il film di Wakefield nella mia vita. Voglio educazione alla diversità, presa di coscienza, cultura, quella che serve a capire che una diagnosi non è uno stigma. Voglio una traduzione italiana di Neurotribes e non l’ennesimo racconto di un bambino magico. Inclusione, non bolle che isolano e dividono.

De Niro in questo senso ha fatto una cosa ottima, come dice anche questo pezzo su Forbes: insistere dando ascolto a Wakefield avrebbe di nuovo spostato la discussione lontano dalle persone autistiche e dalle loro necessità e di nuovo le avrebbe mostrate come neurotipici interrotti e non “come individui con una neurobiologia diversa, che può essere una disabilità ma che contribuisce anche alla loro unicità”.

Rispetto, non curiosità morbosa, interesse e non commozione è quel che dobbiamo a ognuno di loro, l’unico modo di festeggiare un 2 aprile sensato e che lasci un segno, per quanto piccolo.

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