Oggi, in sala d’aspetto, c’era un bambino che giocava, piccolo, avrà avuto 4 anni. Giocava in quel modo lì: tirava fuori le macchinine dal cesto e le metteva in fila precise, una dietro l’altra, perfette. Mi sono accorta che lo guardavo, guardavo la fila e un indizio non fa una diagnosi ma quella fila di macchinine mi incollava lo sguardo e mi è venuto da sorridere, ehi, che bella fila.
Poi ho alzato lo sguardo e ho visto i genitori che guardavano la stessa fila: un po’ tesi, un po’ preoccupati, appena la terapista l’ha chiamato in stanza la mamma è schizzata in piedi, ha detto qualcosa sul disordine che il figlio lascia in giro, poi ha messo via tutto più veloce che mai. Come per liberarsi di quella visione o, che so, evitare che io continuassi a guardarla.
Non è la prima volta, chi frequenta le sale d’aspetto delle terapie lo sa: ci si riconosce. Se si è già veterani ci si strizza l’occhio ed è facile che la conversazione parta spontanea, come va, che terapie fate, quanti anni ha, cose così, cose di ore, di INPS, patronati, gravità o non gravità, commi e leggi 104.
Poi ci sono i nuovi, che un po’ se ne stanno muti per cercare di capire come funziona e un po’ perché “noi non siamo come voi” (tutto normale), che si scusano se i bimbi fanno casino e li richiamano a sedersi se sono, come capita spesso, un bel po’ attivi. E che magari di sfuggita guardano tua figlia già grande cercando di capire se la diagnosi è la stessa, e come è fatta una bambina che a sette anni ne ha già tre abbondanti di terapie alle spalle, chissà a tre anni com’era.
Vorrei dire che poi questa tensione si scioglie, volenti o nolenti, e che vi rilasserete qualunque cosa succeda, perché poi diventa routine, parte delle giornate, come mangiare alle 12 e cenare alle 18:30 e alzarsi alle 7. A volte ci provo, a parlare, prendendola larghissima, perché sono una chiacchierona, qualche volta non ho voglia e voglio stare con gli occhi fissi sul cellulare cercando di evitare ogni contatto e un po’ mi vergogno e mi sento in colpa.
Comunque, per quel che vale, ecco cosa penso: attaccate bottone, spesso noi genitori autistici di lungo corso siamo grandi dispensatori di esperienze già fatte più volte, spesso troppo irruenti, sicuramente volenterosi. Una chiacchierata scioglie la tensione, e fa sentire meno la paura.
I tuoi post sono sempre molto densi e quindi spunto di tante riflessioni. Mi colpiscono sempre.
Quando siamo in sala d’attesa dalla psicomotricista, c’è sempre un’aria strana, d’imbarazzo; bisogna anche dire che io non mi azzarderei mai a parlare e spero sempre nel buon senso degli altri, perchè mio figlio è super curioso sul significato delle parole e se qualcuno mi chiedesse, lui presente, se ha una diagnosi o se abbiamo la 104 o cosa stiamo facendo, mi ritroverei nei “pasticci”, in quanto ancora non ne abbiamo parlato con lui. Dalla psicomotricista, forse soprattutto perchè è privata, ci sono comunque bambini che generalmente hanno problemi di comportamento e relazioni ma sono molto “funzionali” e non so chi tra questi rientra nello spettro.
Quando ci siamo trovati nella sala d’aspetto dell’ASL (siamo seguiti per cui ogni tanto andiamo anche se per ora senza diagnosi pubblica ufficiale), ho visto che ogni “gruppo familiare” stava sulle “sue” ed era riservato; l’ultima volta mi sono “vergognata” perchè mio figlio – in ansia per la “visita” – ha attaccato “bottone” con una mamma che aspettava il figlio, chiedendole come mai il figlio andava lì tutte le settimane e perchè era entrato da solo e se anche lui sarebbe entrato da solo e – siccome la mamma gli ha risposto che il figlio andava dalla psicologa perchè faceva un po’ il monello – le ha raccontato che quella mattina si era comportato male alla lezione di inglese e se anche suo figlio si comportava male alla lezione di inglese (ovviamente voleva capire cosa gli sarebbe successo, ma diciamo che gli manca il senso di opportunità delle domande). Il tutto in maniera “esagitata”.
Il tuo post però mi fa fare anche delle riflessioni più ampie. Se c’è una cosa che mi dispiace dell’essere consapevole dei problemi di mio figlio è il “guardarlo” sempre “in maniera” distorta o patologica, andando a considerare tutto quello che fa come “strano” e “indizio” di autismo. Questo credo che non vada bene affatto, ma è una cosa molto difficile da non fare. Un giorno all’ASL c’era un bimbo che “giocava” a camminare evitando le fughe del pavimento, e tutti lo “guardavamo” o “cercavamo di non guardarlo”, però ad essere onesti lo stesso gioco mi è capitato di farlo (e pure molte volte tanto da ricordarlo) quando ero bambina io e credo che sia un “gioco” diffuso. Lo stesso si può dire per le macchinine, conosco tanti bimbi che le “parcheggiano” allineate, compreso mio figlio – quello non autistico, non quello autistico 😉 . Va bene che quando si ha un figlio nello spettro lieve spesso la causa è genetica – di geni “normali” non alterati che si sono raggruppati in maniera significativa e che in effetti i tratti autistici (non la patologia) sono presenti in tutta la famiglia, e che quindi anche il piccolo può averne dei tratti, però le macchinine “allineate” è un gioco classico, anche se penso dipenda molto da come si fa e soprattutto se è una variante del gioco di farle correre per terra o se si “usano” solo così.
Bentornata Francesca 🙂
L’ho scritto io per prima che un gioco non fa una diagnosi ma certo scatena curiosità, la mia di certo, da lì ad applicare una etichetta tanto per fare ce ne passa: in realtà la fila era così bella e perfetta che proprio non riuscivo a non guardarla. Indovina? In casa mia lo stesso gioco non l’ha mai fatto la Bruna, lo fa spessissimo la Bionda.
Quanto all’attaccare bottone, nessuno oltrepassa i confini e ci mancherebbe pure che una domanda fosse “che diagnosi ha?”, per carità di Dio: capita spesso di parlare di “aspetti tecnici” con quei genitori che vedi spesso, tutte le settimane, e da chi non ho mai visto non mi aspetto certo che mi chieda che cos’ha mia figlia, ma capita che invece mi chiedano quanti anni ha o se va a scuola, questo tipo di “small talk” spesso fa bene anche attraverso i non detti, non ho certo parlato di trasformare la sala d’aspetto in un confessionale, anche perché la Bruna a sette anni ci sente benissimo e devo stare molto attenta a quel che dico in sua presenza.
A parte il fatto che i miei sono due maschi e le tue due femmine, le nostre famiglie si somigliano moltissimo! Prima o dopo dovremmo farli incontrare, per vedere se il loro modo di essere “diversi” li avvicina e ne nasce un’amicizia.
Ovviamente lo “small talk” ha la sua funzione distensiva, però se mi chiedono cose relative a mio figlio (età, scuola ecc), faccio rispondere lui, perchè così è tutto allenamento suo. Scusami però dalle tue parole avevo capito che parlaste di 104, gravità o non gravità, terapie e io non potrei mai parlare di queste cose con presente mio figlio; lui va a fare “psico” (come la chiamiamo noi) perchè impari alcune cose che per lui sono più difficili, ma non usiamo mai la parola terapia, perchè ci chiederebbe – ammesso che non lo sappia – cosa vuol dire e dovremmo poi spiegargli anche il concetto di patologia. Comunque prima o poi dovremo parlargliene!
Ah io sono pronta, quando vuoi tu, anche se per la Bruna il concetto di “fare amicizia” è tutto un programma 🙂
Ci sono mille eccezioni alla cosa che ho scritto ma tu capisci che è un post scritto sull’onda dell’emotività, che non può essere didascalico e indicare come e quando sia opportuno parlarsi (o non farlo), in sala d’aspetto: è soprattutto questione di sensibilità e opportunità e devo dire che in generale non ho mai visto persone andare fuori dalle righe 😉
Vabbè è ovvio che il concetto di “essere amici” sia declinato in versione autistica: ti cerco quando mi va, e quando mi viene in mente qualcos’altro me ne vado; ti rispondo se ho voglia, ma ti parlo dei miei interessi come se fossero anche i tuoi. Mi piace soprattutto fare le monellerie insieme, saltare nelle pozzanghere, fare a chi grida più forte. Ti posso insegnare come suggerire all’orecchio della tua sorellina le cose giuste da fare per fare imbestialire i genitori (ma le femmine mi sa che non ci cascano mica come i maschietti 3enni).
Il massimo della condivisione per lui è aspettarsi in cima al gonfiabile per scendere insieme o fare finta di giocare insieme alla macchina così può usare tutti gli strumenti tecnologici e inventare TOM TOM improvvisati.
Però grazie al fratellino ha scoperto che in due è meglio che da soli.