ho capito che alto e basso funzionamento non vogliono dire esattamente "meno autistico o più autistico"
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Alto, basso, la Bruna

Quando sono entrata nel mondo dell’autismo grazie a mia figlia ci ho messo poco a scoprire l’alto funzionamento e il basso funzionamento. Non sapendone nulla, mi sono arrangiata con un po’ di Google e a un certo punto ho creduto che se mia figlia fosse stata un alto funzionamento avrei potuto tirare il fiato, allentare la corda perché, insomma, nulla di così grave.

Il tempo, l’esperienza, amici e genitori di altri bambini autistici mi hanno insegnato che la strada è lunga e faticosa per tutti: cercare una definizione per sentirmi rassicurata o per avere la conferma di timori tutti miei era una perdita di tempo che senza dubbio posso investire meglio, per esempio per occuparmi della Bruna così com’è, punti di forza e difficoltà.

Non c’è dubbio però che questa storia dell’alto e basso funzionamento sia a un certo punto il pallino di tantissimi di noi genitori, altrimenti non si spiegherebbe la frequenza delle discussioni, su gruppi Facebook e altrove, a tema “come posso sapere se mio figlio è un alto funzionamento”. Nel frattempo, continuando a leggere di autismo, ho trovato alcune riflessioni interessanti sull’uso di queste etichette, se così le vogliamo chiamare.

La premessa è che probabilmente il mondo là fuori nulla sa di funzionamenti e applicherebbe queste etichette come fossero compartimenti stagni, funzionamenti lineari: “alto funzionamento”, come spiega un post di TheAutismSite, potrebbe far pensare che tutto sommato non sia vero autismo, che non ci siano mai momenti di grande crisi durante i quali funzionare diventa quasi impossibile, che in fondo basterebbe sforzarsi un po’ di più per rientrare in non meglio definiti canoni di normalità, dimenticando che anche questo autismo può rendere la vita molto complicata. Allo stesso modo, un basso funzionamento potrebbe correre il rischio opposto e le sue capacità e punti di forza venire sottostimati se non ignorati, con tutti i rischi che questo comporta nel corso di una vita intera.

Non è un caso che in rete circoli parecchio una frase di Laura Tisoncik, notissima e fiera neurodivergent:

“La differenza tra alto funzionamento e basso funzionamento è questa: alto funzionamento significa che i tuoi deficit vengono ignorati, e basso funzionamento che i tuoi punti di forza vengono ignorati”.

È quello che un genitore prova quando gli viene detto che suo figlio “non sembra autistico”, oppure quando vede qualcuno dare per scontato che suo figlio sia una causa persa. Non è una solo questione di sentimenti, è una confusione generale che striscia fino sotto le porte di chi deve educare, di chi vede e valuta i nostri figli e decide che tipo di assistenza possano avere e, più in generale, un modo di rendere ancora più faticoso il lavoro di spiegare l’autismo a chi ci circonda e di costruire un futuro accettabile per chi ha più autonomia e per chi ne ha meno.

Post da leggere sull’argomento:

We don’t see things as they are; we see them as we are. Anaïs Nin

La Bruna: alto o basso?

Esattamente non lo so e non saprei dirlo, direi che è un’evoluzione/involuzione giornaliera: dipende dai momenti, dipende dal contesto, dipende dalle persone. Che sia facile accorgersi che è autistica certo, non c’è dubbio, più cresce e più diventa evidente, anche se forse i suoi coping mechanism in futuro si raffineranno e la aiuteranno a vivere meglio (ma è davvero questo che lei vorrebbe? Tutto un altro capitolo).

Quello che cambia, come dicevo prima e come molti hanno scritto, è come le persone si comportano con lei sapendo che è autistica. Per pensare, rispettarla e agire attorno a lei è necessario vedere prima una bambina, poi una persona autistica, poi mettere in pratica la tanto famosa inclusione in piccoli step pratici:

  • non trattarla come se avesse 2 anni e non 8. La vocina che si fa con i bambini piccoli? No. La richiesta di bacini? No. Voi chiedete bacini ai bambini di 8 anni che vi circondano? Siete esentati solo se siete zie anziane e danarose e nonne amorevoli. Amo i nostri amici perché fanno con lei quello che fanno con tutti gli altri nostri figli – di base, la ignorano – salvo preoccuparsi quando sanno che sta arrivando una situazione particolarmente difficile (leggi: arrivo di una torta con candeline a una festa di compleanno qualsiasi)
  • non parlare di fronte a lei come se non capisse, men che mai del suo autismo. Come dicono gli americani, “assume competence”, anche quella emotiva, forse soprattutto quella: di sicuro parla poco, quanto ascolta non è dato sapere. Tra l’altro, spesso insieme a lei c’è la sorella che ha antenne lunghissime: vorremmo decidere noi quando sarà il momento della spiegazione ufficiale
  • rispettate il fatto che è una bambina autistica: se parlate con lei potete richiamare la sua attenzione, parlare un po’ meno velocemente del solito, senza mangiarvi le parole, dotarvi di grande pazienza se la risposta ci mette trenta secondi ad arrivare invece di 3. L’interazione funziona sempre a due vie anche in caso di autismo
  • non ne sapete più di noi: la Bruna è una persona autistica, non un bambino speciale, bloccato, rinchiuso, che ha ricevuto un dono, men che mai un “bambino che non sembra così autistico”. Non c’è una bambina che deve uscir fuori dentro di lei, non c’è mai stata. Se la pensate diversamente, state negando l’identità di una persona
  • accettare la differenza: lavoriamo per adattare i nostri figli alla neurotipicità perché siano socialmente più accettabili ma non sono sicura che sia sempre giusto, né che lo sia in generale. A lei piace parlare da sola, magari voi vi mangiate le unghie fino a farvi sanguinare le dita o chi lo sa: ognuno ha il suo modo di intrattenersi o di alleviare lo stress. Tenerlo in considerazione è già un passo in avanti.
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stress accudimento figlio disabile
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Parlare con tutti

Quanto c’è bisogno di qualcuno che ascolti i genitori dei bambini disabili? Molto. La misura la danno incontri con tanta partecipazione come quello della Fondazione Paideia sullo “Stress da accudimento”, una serata di introduzione a un percorso più lungo che partirà tra qualche tempo. Ci sono stata ieri sera, in un giovedì che mi esplodeva la testa dopo una giornata di lavoro passata a Milano a capire di più di certe macchine per scriverne meglio, con la voglia di tirare dritto al casello e andare a dormire invece di infilarmi nel centro di Torino.

Invece ne è valsa la pena, intanto perché ho conosciuto Valentina che fa parte delle famiglie Fight the Stroke, che abita nella mia stessa città e sono mesi che ci diamo appuntamenti su Messenger e poi non ci vediamo mai, poi perché ho sentito un bravo psicologo, Andrea Dondi, parlare di cosa fa lo stress a chi accudisce un disabile e non molla mai, perché si deve, per scelta e fatica a delegare anche solo per una pizza solitaria fuori casa, per un paio d’ore di distrazione ogni tanto.

Dopo la presentazione ci siamo ritrovati in gruppetti scelti a caso, genitori di figli con disabilità diverse, chi con l’aria timida ed esitante, chi con lo sguardo asciutto e una capacità di guardarsi dentro che farebbe invidia a chiunque. Ci siamo raccontati le preoccupazioni maggiori (la mia è divisa in due: “non faccio abbastanza”, “che ne sarà di noi nel futuro”), e poi il metodo che ci permette di trovare un momento per stare in pace, stupido o importante che sia, basta che funzioni.

A un certo punto, chissà perché proprio nel mio gruppo – magia della casualità o forse è del tutto normale, chissà – è venuto fuori un tema comune: parlare con gli sconosciuti. La mia vicina di sedia ci ha fatto ridere descrivendo la tecnica che ha sviluppato per attaccare bottone con chiunque, dalla parrucchiera alla panettiera di passaggio, basta che non sappiano niente di lei. L’altra ragazza che era seduta accanto a me ha descritto la sua rinascita personale quando ha deciso di impegnarsi in una Onlus e dare agli altri quello che aveva imparato lei: sono andati via i dolorini, via le ansie, tutto quello che era in più oltre alla preoccupazione per un figlio disabile. Anche io parlo con gli sconosciuti, ho detto, solo che invece di farlo a voce lo scrivo: più mia figlia cresce più diventa difficile e più mi sembra necessario, e accidenti se funziona.

Stamattina ho ricevuto un commento al mio ultimo post, mi basta per sapere che proverò a scrivere ancora. Nel frattempo, linko un’altra volta a quello che dicevo l’anno scorso sull’usare le parole per essere “blu ogni giorno” e non solo il 2 di ogni aprile.

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autismo life animated documentario
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L’autismo di Life, Animated

Owen Suskind è un bel ventenne autistico, uno dei tanti, unico come tutti gli autistici. È sveglio, sagace, limpido e letterale come forse solo un autistico riesce a essere e sta marciando da tutta la vita verso l’obiettivo di diventare indipendente, di vivere da solo e avere un lavoro. È figlio di Ron Suskind, giornalista e premio Pulitzer, e Life, Animated è il documentario candidato all’Oscar che parla della sua vita e di quella della sua famiglia. Meriterebbe l’Oscar solo per aver dato voce a un autismo normale, senza traccia di genialità, e poi perché nella storia non c’è spazio per il sentimentalismo, pregio definitivo che fa davvero sentire la voce di Owen e mantiene intatta la sua dignità senza ammantare tutto di tenerezza appiccicosa.

Owen, dopo una velocissima regressione, smette di comunicare e viene diagnosticato autistico attorno ai tre anni: non parla, il suo linguaggio è gibberish, miscuglio incomprensibile di suoni e parole. Fino a quando i suoi genitori si accorgono che la chiave per tornare a parlare e a comunicare con il loro figlio sono i cartoni animati Disney, che Owen conosce a memoria, battuta per battuta. Se pensate che non sia possibile, vi tranquillizzo: anche la Bruna conosce a memoria centinaia di passaggi di cartoni animati, come Owen si illumina quando li guarda e come Owen interpreta il mondo anche a partire da quello che i cartoni le insegnano, con le loro storie fatte spesso di sentimenti assoluti e facili da capire, di risate molto risate, pianti molto pianti, amore molto amore e cattivi molto cattivi. L’affare si complica crescendo ma è senza dubbio un punto di partenza: da qualche parte si deve pur cominciare a capire il mondo.

Mi piace l’idea che qualcuno che non ha a che fare con l’autismo vada a vedere questo documentario e veda un autistico adulto in azione, un autistico che per una volta racconta una storia diversa dalle solite: i racconti che fanno più notizia in genere riguardano bambini piccoli e il racconto passa sempre e comunque dalle parole dei genitori. Qui i genitori, insieme al fratello di Owen, ci sono e sono una parte importante della storia, ma soprattutto c’è Owen: Owen che parla, Owen che vive, Owen che ama la sua ragazza e si confonde quando sente parlare di sesso, Owen che va a un congresso sull’autismo, fa il suo intervento e dice guardate che a noi piace stare con gli altri, non confondetevi, è che non sappiamo proprio come si fa.

Altre cose notevoli: l’atteggiamento dei genitori di Owen e la premura con cui organizzano il “dopo di noi”. Walter, il fratello di Owen: il vero momento di groppo in gola del documentario va a lui e al suo sentimento immenso per il fratello misto alla confusione e al terrore del futuro, quando i genitori non saranno più parte del quadro. Lo sguardo di Owen quando guarda i suoi film Disney preferiti e lo sguardo di Owen in camera, un aggancio potentissimo per chi non ha mai visto l’autismo da vicino. La mancanza dei momenti no che sicuramente ci sono e che per fortuna a nessuno è venuto in mente di filmare. I momenti con la terapista che valuta le sue risposte sociali e la capacità di fare commenti appropriati. Lo sguardo sempre puntato sul futuro. L’indipendenza che ha la forma di un appartamento tutto per Owen e un lavoro, anche se in un ambiente parzialmente controllato.

Una frase su tutte: “Who decides what a meaningful life is?”.

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