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Atypical – L’autismo secondo Netflix

Atypical non è la serie che vorrei ma sospetto che quella che piacerebbe a me, piacerebbe solo a me. Ogni tanto mi chiedo anche se vorrei davvero vedere una serie che racconta proprio la vita della mia famiglia, non importa se fatta benissimo, e la risposta è mica tanto.

Quando vedo un film o una serie tv che parla di qualcosa che conosco da vicino mi ci affaccio in genere con pregiudizio e una sensazione di fastidio che fatica a smorzarsi. Ammetto che prima di vedere Atypical ho fatto la mia cosa preferita: sono andata su Twitter, dove vivono e parlano, molto e a gran voce, alcuni uomini e donne autistici pieni di consapevolezza, fieri e determinati a dire la loro sulla loro identità e decisamente radicali nelle loro visioni della vita, dell’autismo e di noi neurotipici. Non mi sono stupita di trovarli quasi tutti molto critici nei confronti di Atypical mentre altre persone, genitori, fratelli e sorelle o amici e conoscenti di persone autistiche tendevano tutto sommato a trovarlo un buon esempio di racconto di autismo e sposavano la causa del “purché se ne parli”.

Poi ho iniziato a guardare Atypical e, a parte una prima puntata così didascalica da soffocarmi (mi sono pure addormentata a tre quarti e ho dovuto rivederla), guidata forse dall’ansia degli sceneggiatori di mettere dei punti fermi su autismo e autismo ad alto funzionamento, il resto è andato via in pieno stile binge watching, il che depone molto a favore della serie in generale. Il mio scetticismo ha fatto su e giù ma sempre senza picchi estremi e un altro indicatore personale della bontà di Atypical è che tanti miei amici e conoscenze online che nulla hanno a che fare con l’autismo hanno cominciato a vederlo e apprezzarlo.

Qualcuno non ha apprezzato, per esempio Martina, qualcuno come David Vagni di Spazio Asperger ha invece detto che Atypical funziona, magari non tutto, ma funziona: leggeteli perché sono riflessioni interessanti e io mi trovo in maniera un po’ confusa a essere d’accordo con entrambi.

Non essendo titolata per parlare di Atypical con cognizione di causa perché mia figlia non è adolescente, e dicendo subito SPOILER ALERT (proseguite a vostro rischio e pericolo se non avete ancora visto la serie), provo a dire qualcosa comunque e mi tolgo subito il sassolino dalla scarpa parlando di Elsa, madre di Sam (la brava e sempre addolorata Jennifer Jason Leigh), così autism mom da essere insopportabile: mi aspettavo un personaggio diversamente complesso e dall’identità meno diluita dentro quella del figlio e invece alla fine Elsa sembra solo più rompicoglioni e svanita del necessario.

Elsa è una di quelle madri che invocano la presenza di un marito salvo poi criticarne ogni mossa, fosse anche il tentativo di cambiare un pannolino, perché in fondo “so io come si fa”: l’assenza del padre di Sam per un breve periodo durante l’infanzia del figlio è imputata al non averne accettato la diagnosi ma anche dall’essersi sentito buttato fuori dalla cerchia, anzi, dal club esclusivo Elsa-Sam, senza possibilità di scavarsi un anfratto. Brutto e cattivo quanto vogliamo ma meno condannabile di quel che pare.

Il personaggio peggiore però è Julia, la terapista di Sam, che avrei voluto presenza empatica e anche bizzarra ma sempre superprofessionale, soprattutto nel momento della scoperta dei sentimenti di Sam nei suoi confronti.

Casey, sorella teenager di Sam, volitiva e opinionated, preoccupata e atipica a modo suo, l’amico e collega Zahid, la fidanzata terribile e le altre figure che si muovono attorno alla famiglia di Sam riescono a far passare un messaggio importante: che l’autismo non è solo una questione di famiglia ma di comunità, che se sei capace di costruirtene una attorno e sei abbastanza fortunato da trovare una quota minima di persone dotate di pazienza e sensibilità, puoi davvero creare un microcosmo che sorregge e aiuta e si allontana dalla compassione sterile e improduttiva. Qualcuno ha trovato poco realistica la scena dell’autista preoccupato per Sam durante la sua crisi peggiore (che scena dolorosa), ma io credo che nelle microcomunità succeda proprio questo: ognuno fa la sua parte, anche molto piccola, per prendersi cura di una persona che vive più difficoltà degli altri, perché è normale fare così e non perché “poverino Sam”.

Tornando a Zahid, è odioso ma è soprattutto adorabile perché davvero amico di Sam: non mostra di tollerarlo ma lo tratta alla pari, non lo scusa a priori ma lo protegge a modo suo e se questo non è un atteggiamento inclusivo non so cosa altro potrebbe esserlo. La sua noncuranza cozza e stride con la voglia di dimostrarsi autism-friendly della fidanzata Paige, esagerata ma anche capace di convincere una scuola intera a trasformare una festa attesissima in un silent party, una festa silenziosa: inverosimile, ma la scena è stupenda e quindi evviva la sospensione dell’incredulità.

Atypical fa un discreto lavoro di avvicinamento a una disabilità particolare e spesso poco visibile o riconoscibile come l’autismo: lontana da una perfezione che non saprei nemmeno individuare, accogliente nei confronti di chi non vive ogni giorno con l’autismo, spiega qualcosa e si lascia guardare, un traguardo apprezzabile.

Alla fine solo una speranza mi rimane, che un giorno il protagonista di una storia così possa essere una ragazza e che, parlando della sua disabilità, si possa essere così sovversivi da parlare anche della sua voglia e del timore di fare sesso usando la comicità, il sarcasmo ma anche la profondità che serve per dire che per una donna è tutto molto più difficile, figuriamoci se poi entra in ballo anche una difficoltà in più come può essere l’autismo. Nel caso, l’aggettivo rivoluzionario mi sembrerà meno inopportuno per descrivere una semplice serie tv.

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One thought on “Atypical – L’autismo secondo Netflix

  1. LS says:

    Io lo sto guardando adesso e mi ha presa tantissimo. Per questo sono tornata a cercare questo tuo post.

    Mi piace molto il personaggio di Zahid, perché genuino con Sam e in una relazione alla pari: la loro amicizia è importante per entrambi, entrambi fanno un pezzo di strada in più grazie al rapporto con l’altro.

    Una cosa su cui sto riflettendo guardandolo è che sembra che serva un elemento personale per sapersi rapportare con l’autismo (come, forse, anche ad altre forme di difficoltà personali). Le persone che si relazionano in maniera continuativa con Sam hanno imparato a farlo perché vogliono bene a lui o a un’altra persona con quella caratteristica. Chi non ha avuto quest’occasione non sa tanto bene come fare (vedasi la scena del poliziotto). O comunque la serie non indugia su altre figure (ad esempio, sul ruolo dei professori di Sam).
    Come se un’esperienza diretta, per lo più familiare, fosse necessaria per sapere stare nel modo “corretto” (passatemi il termine, che riconosco incompleto se non errato) con una persona con una forma di disabilità.
    Pensando alla mia vita, anche in rapporto al lavoro che faccio -l’insegnante- mi rendo conto che aver sperimentato alcune situazioni sulla mia pelle mi renda maggiormente in grado di cogliere certi segnali o di leggere quelle difficoltà. Per ciò che non ho vissuto in prima persona posso studiare, leggere romanzi o anche guardare serie.
    Ma per farlo bene, per essere una persona o una professionista attenta, brava, preparata, serve aver vissuto tutto sulla mia pelle? Credo di no, e per fortuna, perché sarebbe impossibile.
    Forse, se provo a rispondermi da sola, mi viene da dire che se ci si mette in una posizione di ascolto, rispetto e calma nelle relazioni umane si può essere contenti di sé e vedere passo passo cosa succede.

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