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Fiducia e futuro

Inglese è andato giù a fatica, lo scorso fine settimana: poca voglia di studiare, anche se alla fine un po’ di studio lo abbiamo messo insieme. Io non mi scompongo mai: aspetto paziente perché sbraitare produce effetti peggiori. A cose e compiti fatti, mentre ormai eravamo tutti a tavola, concentrati sulle tagliatelle al sugo, la Bruna mi ha detto: “Scusami, non volevo farti arrabbiare”.

L’altro giorno studiavamo storia, tra le altre cose mia specializzazione all’università, materia che amo di più al mondo e, ironia della sorte, credo la più astratta da insegnare a una mente come quella di mia figlia: come si introduce un concetto come “quattromila anni fa”? Comunque sia, siamo ai Sumeri e alle classi sociali, ripetute più volte mentre la mia mente oscilla tra due mantra autoconsolatori, “ma a che serviranno mai i Sumeri nella vita” e “vedi, ecco perché ho fatto bene a restare sempre lontana dall’insegnamento”. Qualche ora dopo, in macchina, ripetiamo le classi sociali per ripassare e la Bruna mi ricorda che ho scordato i mercanti. Allora mi ascoltavi mentre parlavo, hai visto.

Presume competence è una delle espressioni che mi accompagna nei tempi buoni e meno buoni. Significa avere sempre ben presente che mia figlia può essere capace: di capire, di fare, di risolvere, anche se in tempi e modi diversi dai miei o da quelli dei suoi pari età.

Non è illusione ma una linea da seguire che si vede anche quando c’è la nebbia. Nella quotidianità, mi aiuta a evitare di dedurre in fretta che mia figlia non abbia capito il senso di una situazione o di un concetto (può essere, ma niente mi vieta di accertarmene e, nel caso, di spiegarlo o rispiegarlo), mi frena dal fare, parlare e decidere al posto suo quando non è necessario. Mi suggerisce di fare attenzione a come parlo di lei, che è una delle ragioni per le quali scrivo molto meno su questo blog. A ponderare l’uso di “non lo può fare”, che comunque è un’affermazione ben diversa da “può fare tutto” (sono consapevole delle derive anche pericolose di quest’ultimo pensiero).

Presume competence è uno sguardo curioso sul funzionamento di una mente che non è la mia, e poi lavoro per aiutarla a raggiungere i suoi traguardi: la nostra impazienza di genitori e di educatori non giustifica un atteggiamento rinunciatario o poco disposto a provare strade alternative. Vale la pena ribadirlo, perché le parole sono pesanti e non si sa mai: non in funzione di un orizzonte di normalizzazione e di traguardi non realistici, ma sempre nell’ottica di massima espressione delle potenzialità individuali.

La ricerca di equilibrio è un lavoro costante, soprattutto per un genitore che non è una persona autistica, come per esempio sono io. Presume competence, quindi, è anche ascoltare le persone autistiche adulte che sono stati bambini e vorrebbero dirci delle cose: anche dalle storie che sembrano più lontane da quelle dei nostri figli possiamo intuire un domani e iniziare a costruirlo. Purtroppo la nostra fama di autism moms ci precede e, anche se non amo essere etichettata a priori – soprattutto se l’etichetta riporta la dicitura “abilista” – credo che noi genitori dovremo rifletterci: non è detto che tocchi a noi sapere di più o meglio del futuro dei nostri figli.

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Ammessa alla quarta elementare

Quando le cose vanno bene non scrivo e non mi piace: penso che con uno sforzo in più potrei parlare delle buone pratiche – soprattutto scolastiche – che circondando mia figlia e noi e ci rendono la vita più leggera e gestibile per dire che le buone prassi esistono e, quando è possibile, come lavorare per arrivarci.

In questo modo la mia voce si aggiunge a quelle che in altri blog, sui gruppi Facebook e altrove contribuiscono a indicare norme, riferimenti e anche solo buone idee per lavorare con i bambini autistici. Sono la prima a usarli, come ho fatto di recente chiedendo qualche informazione in più sull’iter giudiziario per ottenere l’accompagnamento (ehi, non tutto funziona benissimo anche qui da noi e alla fine ci siamo decisi per il ricorso all’INPS), ma c’è qualcosa in più che mi frena ed è una sorta di “come oso” che nasce dal confronto quotidiano con troppe situazioni che non funzionano a dovere. Lavorerò su me stessa per farci i conti ed è tutto quello che mi sento di dire per ora.

Succede però che alcune notizie che girano vorticosamente tra quotidiani e gruppi Facebook e che cerco di ignorare poi diventino del tutto non ignorabili. Questa estate è successo con la notizia della madre del ragazzo autistico che ha frequentato con lui i cinque anni di superiori per seguirlo lungo una strada che fin dall’inizio si era presentata male: “Gli educatori continuavano a cambiare, le figure non erano formate, la scuola non poteva assicurare una presenza costante. Mancanza di fondi: ho capito che dovevo fare da sola”.

La naturale ammirazione per una scelta così impegnativa e drastica è scontata e, come è logico, nessuno può permettersi di giudicare una situazione di cui nulla si sa a parte quello che è possibile leggere nell’articolo di Repubblica o altrove (lo stesso vale per la notizia del bambino autistico “abbandonato” dalla famiglia, della quale credo sia meglio che nessuno parli se non direttamente coinvolto), però ci ho pensato per giorni e ho poche cose da dire proprio a partire da questo spunto.

La prima è un dato di fatto: notizie di questo genere non si possono fermare – le storie delle madri coraggio nella disabilità sono miele per la stampa – e il fatto che l’articolo indichi “l’emergenza autismo” (“100 mila bambini e 400 mila adulti, ignorati dalla scuola, dalla sanità e dallo Stato”) quello che rimane è soprattutto l’atto straordinario al quale nessuno dovrebbe mai arrivare se la scuola funzionasse a dovere: fatevi un giro su Google con la keyword “decreto 66 inclusione scolastica” per un veloce assaggio del nostro amaro calice quotidiano.

La seconda la cito solo tangenzialmente perché apre mondi dopo mondi ed è naturalmente la rappresentazione della madre come unico polo attorno al quale tutto gira e in base al quale le cose funzionano o non funzionano: dando pure per assodato che mediamente in Italia la donna guadagna meno dell’uomo ed è la prima a rinunciare a lavorare in caso di disabilità – sempre che sia possibile e al prezzo di dissesti economici familiari che solo chi rinuncia a una entrata fissa conosce – c’è tutto il contorno di identità individuale che si diluisce dentro quella del figlio disabile (quante terapiste dei vostri figli non vi chiamano con il vostro nome proprio ma “mamma”? Io forse sono troppo reattiva ma credo sia un piccolo indicatore di quello che sto cercando di dire), del ruolo di caregiver e le difficoltà fisiche e psicologiche che ne derivano, e dell’eterno perpetuarsi dell’immagine di noi come “guerriere” ed “eroine” che probabilmente – o almeno io – non vogliamo essere, perché non basta a far avere a un figlio tutto ma proprio tutto quello di cui ha bisogno.

La terza si lega parzialmente alla seconda ed è quella che più mi intimidisce: nel mondo del disability/inspiration porn (non solo, succede anche in altri contesti, per esempio nel caso di disturbi come la depressione), complesso e variegato, c’è anche l’idea che “darsi da fare” sia la chiave per riuscire sempre e comunque, con conseguente contorno di sensi di colpa per chi semplicemente non può, non riesce o non vuole per problemi fisici, economici, familiari, perpetuando l’idea che a un certo punto sia preferibile arrangiarsi piuttosto che pretendere ciò che ci spetta: una scuola decente, i sussidi statali dovuti, un progetto di vita solido, una presa in carico soddisfacente da parte della sanità pubblica.

Insieme al grande racconto esemplare che dura un’estate continuo ad augurarmi di leggere e vivere mille racconti di piccole e piccolissime buone storie quotidiane: se lo meritano non solo i genitori ma anche gli insegnanti, i medici, i terapisti, gli psicologi e tutti quelli che costruiscono il futuro insieme a noi.

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Sei anni fa

Sei anni fa oggi nevicava, la Bionda aveva un anno e mezzo e si stava preparando per il nido con la nonna mentre noi prendevamo l’autostrada verso il Centro Autismo di Mondovì, dove la psicologa della nostra ASL ci aveva invitati ad andare per capire meglio tutto e toglierci i dubbi.

E forse era per la neve, forse per chissà cosa, sembrava tutto irreale: come si possa essere contemporaneamente consapevoli e inconsapevoli di una nuova realtà è una sensazione che ricordo fisicamente ma che il mio cervello non sa elaborare nemmeno oggi.

Una telefonata a metà strada ci aveva avvertito che la dottoressa che avrebbe dovuto vedere la Bruna non era riuscita ad arrivare in ospedale, ma se siete già in viaggio venite e vediamo cosa si potrà fare, ci aveva detto la voce gentile al telefono.

Così ad accoglierci abbiamo trovato Maurizio Arduino, che chi bazzica nell’autismo ed è piemontese probabilmente ha già sentito nominare: un dottore accogliente che si è messo subito al tavolino con la Bruna.

Una diagnosi è un momento complesso e semplice allo stesso tempo: ci vogliono test e relazioni per descrivere la persona, i comportamenti e gli indicatori che la inseriscono all’interno dello spettro autistico, ma quella mezz’ora di gioco al tavolino con Arduino è stata la nostra cartina di tornasole.

C’è voluto qualche giorno, qualche settimana per riorientarmi nel mondo, per decidere insieme a David di scrivere di autismo in questo blog, per guardare mia figlia senza pensare e ora, e ora che ne sarà di noi.

C’è voluto qualche anno e ci vorrà una vita intera per me, che non sono autistica, per capire una mente autistica, forse la vita non basterà e certamente non basta essere madre o padre per sapere cosa è giusto e più indicato fare con un bambino che ha bisogno di molte più cose di quelle che ti aspettavi di dovergli dare.

Ma qualche passo l’ho fatto, sto meglio adesso di come stavo allora e di riflesso penso stia meglio mia figlia, mentre tutto il mondo che si muove attorno a lei lo fa con più grazia e meno confusione di una volta.

La disabilità è destabilizzante per chiunque e per un genitore è una slavina che porta via tutto quello che credevi fosse possibile per il futuro del bambino che hai messo al mondo. Non ti rende migliore, non ti fa diventare più altruista né meno razzista di quello che sei, se lo sei, non ti dà diritto di parlare di autismo anche se poi scegli di farlo lo stesso: al limite, se ne sei capace, ti costringe a fermarti e a riflettere più volte di quanto ti capitava prima, e se ascolti bene ti insegna che gli orizzonti in cui agisci sono molto più ampi di quelli della tua sola famiglia. Che hai grandi responsabilità, che tu lo voglia o no.

Sono passati sei anni e spero di essere diventata più rispettosa dell’identità di mia figlia di quanto lo fossi prima, e so che ho ancora strada da fare. Non mi colpevolizzo per essere entrata in questo mondo pensando “come facciamo a salvarla” ma oggi ho una visione più ampia: la persona che cresco mi incuriosisce ogni giorno, gli sguardi altrui non mi imbarazzano più, anzi, mi invitano a provare a spiegare ancora meglio che questa bambina è unica proprio come tutti gli altri. Con la sua identità, il carattere, le capacità e le incapacità che l’autismo da solo non può spiegare.

Ciò non toglie che io non nasconda mai la sua diagnosi, ed è una scelta personale: intanto perché sarebbe impossibile nasconderla, e perché non posso parlare di autismo in termini astratti e poi pretendere che il mondo lo capisca, lo conosca e lo riconosca e impari a conviverci senza averne esperienza diretta e riconoscibile.

Non sarò io che cambierò il mondo? Sono ingenua se penso che il mondo sia meglio di quello che è davvero? Me ne farò una ragione e continuerò a pensare che l’identità di mia figlia, fatta anche di autismo, non ha nessun bisogno di essere nascosta e dissimulata, e che più persone penseranno “ma guarda, anche questo è autismo, non avrei detto”, più la strada diventerà larga e percorribile: mia figlia un giorno non avrà noi ad accoglierla sempre e comunque, e sarà tanto più sola se noi non avremo costruito qualcosa attorno a lei. E fino a oggi, il percorso che abbiamo scelto sembra darci ragione.

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