Anche quest’anno sono stata a Call4brain, l’evento organizzato da Francesca e Roberto che mette insieme riflessioni e discussioni su medicina e dintorni: ricerca, riabilitazione, cura, prevenzione, in una prospettiva che tiene sempre il paziente – la persona che ha bisogno di cure e attenzione – al centro di tutto quello che lo riguarda.
Tanti spunti anche dai talk dei TEDMED, interessanti come sempre, in particolare la riflessione di Alta Charo, esperta di bioetica, sulla ricerca genetica su fino all’editing genetico, con un punto di vista sano ed equilibrato contrapposto all’allarmismo che chiama subito in causa l’eugenetica.
Uno degli argomenti del pomeriggio era il “paziente coinvolto”, engaged: coinvolto dalla diagnosi fino alla cura e anche dopo. Quando arriva una diagnosi inizia un percorso a tappe, queste:
- Blackout – la persona riceve la diagnosi, ne è travolta, delega molto al sistema sanitario
- Consapevolezza – l’approdo all’accettazione ma con ancora poca autonomia nella gestione di sé in rapporto al sistema sanitario
- Allerta – una allerta costante, appunto, verso ogni segno della malattia, contrassegnata da un’attivazione disorganizzata nei confronti del sistema sanitario
- Progetto eudamonico – la malattia è integrata nella vita quotidiana, il paziente è attivo e consapevole nel rapporto con il sistema sanitario
(Grazie alla Dottoressa Guendalina Graffigna dell’Università Cattolica del Sacro Cuore per avermi concesso l’uso dei termini usati nel corso del suo workshop)
La consapevolezza e l’engagement del paziente crescono dal blackout al progetto eudamonico, la voce del paziente diventa importante nella gestione della sua condizione e questo si traduce in un sistema sanitario che riesce a fornire assistenza più efficace e personalizzata (probabilmente e in maniera forse controintuitiva, aggiungo io, con risparmio di tempo e di risorse economiche).
Quando il paziente è un bambino, lo ha ricordato anche una madre presente in sala, sono i genitori a vivere queste fasi: se questo non accade, i genitori restano fermi allo smarrimento e al pochissimo engagement per responsabilità difficili da attribuire, a volte personali, a volte perché le informazioni arrivano con il contagocce o non arrivano affatto. L’allerta diventa una costante nella vita famigliare, il ricorso a Facebook e ai suoi gruppi e a Google è necessario ma non sempre utile e giudicato con sufficienza da medici e professionisti.
Nel momento del blackout è tutto complicato e nessuno può illudersi che un genitore che ha appena ricevuto la diagnosi stia davvero ascoltando e capendo quello che gli viene detto. Chi frequenta i gruppi dedicati su Facebook vede ripetersi le stesse identiche domande e a volte le informazioni date da tante voci diverse non sono nemmeno corrette perché tutto cambia da ASL a ASL, da regione a regione, da ufficio postale a uffficio postale, così alla fine l’unica cosa davvero comprensibile è che il tempo passa veloce, se ne va e nessuno lo ha davvero usato bene.
I genitori hanno bisogno di sostegno psicologico. Avete mai perso qualcuno che amate? Dei giorni dopo la scomparsa di mio papà ricordo il dolore ma anche la sensazione di oppressione data dalle mille cose da fare, da firmare, mettere a posto, dividere, organizzare. Dirò una cosa brutta: poi passa, per forza di cose, invece gestire un figlio che vive e cresce non passa mai e nessun genitore può permettersi di vivere tutti i giorni in una realtà troppo complicata da gestire, capire, mandare avanti. Bisogna che qualcuno ti metta in strada come fossi una macchina nuova e controlli che tu riesca ad andare avanti: un paio di incontri post-comunicazione della diagnosi per inquadrare la realtà e sentirsi meno soli sarebbero già qualcosa.
Poi iniziano le terapie, a porte chiuse. E invece qualche momento di porte aperte, di condivisione e partecipazione migliorerebbe la consapevolezza e anche le capacità dei genitori di gestire il loro figlio autistico.
Poi c’è la scuola: ore di sostegno, PEI, gruppo integrato, educativa e la sgradevole sensazione di essere inopportuni quando chiediamo un pezzetto in più di informazione e collaborazione. Gli obiettivi di lavoro comuni e condivisi sono un principio nobile sulla carta ma siamo in tanti a notare che la condivisione spesso parte sempre e solo da noi genitori che desideriamo essere delle risorse, non delle interferenze: è deprimente limitarsi a fare i compiti a casa, organizzarsi con interventi extra ma un po’ di nascosto dalla scuola, non sapere cosa sia successo a scuola (se alla domanda “Che cosa avete fatto oggi a scuola?” il bambino medio risponde “Niente”, immaginatevi cosa possa raccontare a casa un bambino autistico), magari scoprire che bambino e sostegno passano più ore fuori dalla classe che dentro e che l’inclusività è evaporata ed è volata fuori dalla finestra.
Insomma, la presa in carico di un bambino autistico spesso non corrisponde alla presa in carico di tutta la famiglia per renderla consapevole e attiva nella gestione diretta dell’autismo. Se poi alla mancanza di coinvolgimento della famiglia corrisponde anche un accesso complicato o nullo alle informazioni più utili, allora seguire e gestire l’autismo diventa così difficile che il risultato è una paralisi quasi completa, con tutte le conseguenze negative immaginabili su un bambino trascurato proprio quando gli interventi riuscirebbero meglio a liberare il suo potenziale, piccolo o grande che sia. Ci vedo anche una conseguenza aggiuntiva: se il genitore ha l’impressione che nessuno lo ascolti ha un motivo in più per cercare altro e il rischio è che questo altro siano terapie alternative inutili e magari anche costose.
Cito alla lettera la mia amica C. quando dice che i bambini non sono fatti a compartimenti stagni: non c’è il bambino in terapia, il bambino a scuola, il bambino a casa, il bambino è tutte queste cose insieme, quello che avviene a scuola ha ricadute a casa e viceversa, quello che avviene a terapia ha ricadute a scuola e viceversa e così via ed è per questo che noi genitori attenti e consapevoli, quelli che si caverebbero un occhio per arrivare alla fase “progetto eudamonico”, chiediamo a gran voce di diventare risorse utili, sollecitiamo e siamo disponibili a coordinare una comunicazione fluida e serena tra tutte le figure coinvolte nella crescita dei nostri figli. Lasciate pure che ci salviamo da soli, ma lanciateci almeno quel salvagente importantissimo chiamato informazione.
P.S.: Durante call4brain ho scoperto anche che il metodo Suzuki per insegnare la musica ai bambini coinvolge tutta la famiglia ed è necessario che i genitori partecipino alle lezioni e continuino a casa a proporre quello che hanno imparato a lezione. Non sarebbe bellissimo se succedesse anche “da noi”?