Una volta, due volte, tre volte, tante volte amici e sconosciuti mi hanno chiesto: allora, ma tua figlia (seconda elementare finita) sta imparando a leggere e scrivere qualcosa?
Cosa mia figlia in particolare sappia fare non è rilevante perché tutti i bambini hanno capacità e potenzialità diverse e così i bambini autistici. Quando la domanda ha smesso di stupirmi, mi sono guardata intorno per misurare la differenza tra quello che sappiamo noi genitori e gli insegnanti e i terapisti e quello che il mondo vede da fuori.
Quel che il mondo vede da fuori, per inconsapevolezza e una visione che mi pare perenne dell’autismo, è che la persona autistica a scuola sia una persona da gestire, prima che una persona alla quale sia possibile insegnare qualcosa (ditemi se mi sbaglio: vorrei tanto sbagliarmi). Se è legittimo che la parte comportamentale e di “gestione” in senso largo sia un po’ la base sulla quale lavorare, non può essere sempre una fase a tempo indeterminato: di storie di bambini impegnati a fare nulla a scuola credo tutti noi che viviamo l’autismo ne conosciamo troppe.
Se il bambino è pronto per imparare qualcosa, deve imparare qualcosa, se possibile con un metodo che assecondi il suo modo di imparare e lo metta a frutto. Si può fare, costa fatica e tanto studio ma si può fare: un qualsiasi insegnante di sostegno e un qualsiasi docente curriculare ci possono riuscire, se supportati adeguatamente e se disponibili ad ascoltare i genitori e i terapisti.
Come mi sento? Lo confesso, a volte mi sento percepita come una esaltata che non sa accettare i limiti di sua figlia e insiste, insiste, insiste sulla didattica e sul farla lavorare. Passa subito, è una fiammata di incazzatura ma mi fa riflettere perché la posta in gioco è tanta, e pesante: il futuro e l’autonomia – emotiva, relazionale, quotidiana, lavorativa, sociale – di una persona che sarà autistica per sempre, con relativi costi spalmati su tutti, tutti noi, anche se pensiamo che questa cosa non ci riguardi poi mica tanto.
Poi succede che a un certo punto incontro il mondo dei DSA – i disturbi specifici dell’apprendimento – inizio a conoscere gli strumenti compensativi e dispensativi, cioè le misure che abilitano chi ha difficoltà di lettura o scrittura o di altro tipo a farlo nel modo migliore e le misure che lo dispensano da prestazioni gravose e che non migliorano l’apprendimento (per esempio, detto alla buona: se un bambino ha difficoltà di lettura specifiche non migliorerà esercitandosi a leggere continuamente).
In breve, succede che cado dal pero, prendo una brutta botta e mi dico: ma possibile che per mia figlia non esista nulla di tutto questo? Ma perché anche il suo PEI non può indicare le stesse misure e tracciare una via chiara per la sua educazione e istruzione? Lo so che c’è chi lo fa e che io mi sveglio sempre tardi e so che anche i DSA hanno le loro gatte da pelare, che tutto è da valutare e adattare a ogni singola necessità, ma la domanda rimane: cosa dobbiamo fare perché la scuola insegni le cose giuste nel modo giusto ai nostri figli?
Io non ti posso dare molto conforto perchè sono talmente sicura che la percezione dell’autismo a scuola sia di un qualcosa di negativo che bisogna “gestire”, che mio figlio l’ho mandato senza parlare della sua diagnosi. Lo so che di fondo è un comportamento sbagliato e magari anche “da irresponsabile” però è in gioco il suo futuro e non posso mettergli addosso dei lacci più pesanti di quelli che ha. Non credo che questo metodo possa funzionare sempre, temo moltissimo le scuole medie, però al momento funziona.
Purtroppo sono convinta che i PEI sarebbero fatti molto meglio se invece di partire da un’etichetta e da una diagnosi – che a livello di stile di apprendimento e di difficoltà nell’apprendere non vuole dire nulla perchè veramente inquadrare una persona nello spettro non dice nulla a livello delle sue capacità di apprendimento – si partisse solo dal bimbo, vedendo di preciso quali sono le difficoltà e i punti di forza e studiando come usare gli uni per superare le altre con chiari gli obiettivi didattici. Però non mi sembra che si vada in quella direzione.
D’altronde a scuola l’apprendimento didattico ha sempre meno peso per tutti; forse la nostra società è talmente cambiata che alcune cose contano di più di altre.
Comunque fai bene a pretendere che tua figlia vada a scuola per imparare a leggere, scrivere e tutto il resto al meglio delle sue possibilità, anche perchè se si pensa che un bimbo debba andare a scuola solo per comportarsi socialmente bene, socializzare e imparare a relazionarsi con gli altri allora sarebbe meglio mandarlo a fare sport, campo nel quale queste competenze si raggiungono meglio, in un ambiente più rilassato e facendo cose più divertenti.
Spero almeno che quando ti chiedono se tua figlia ha imparato a leggere e a scrivere non lo facciano davanti a lei!
Ecco, mi ero dimenticata di questo commento 🙂
Capirai che ovviamente le mie posizioni sono distantissime dalle tue, per una serie di motivi, primo perché non credo che una diagnosi comunicata corrisponda in maniera univoca a un laccio. Ma comunque, comprendo, dato il funzionamento, per noi non comunicare la diagnosi sarebbe uno scherzo.
I PEI possono essere fatti benissimo, lo prova quello di mia figlia che non penso nomini mai la parola “autismo” ma la descrive per come è. Non mi sento nemmeno di generalizzare l’ipotesti che l’apprendimento didattico abbia meno peso in generale, ci vorrebbe una statistica, le esperienze individuali contano poco. Mia figlia va a scuola compresa e con un sostegno fantastico che non si arrende mai, e che speriamo di vedere riconfermato anche quest’anno, altrimenti chissà: la parte relazionale fa parte appieno del suo PEI, anche perché è a scuola che passa la maggior parte del suo tempo. Certo, come dicevo nel post e come dici tu, non può essere il solo obiettivo.
P.S.: davanti a lei mi chiedono le cose più incredibili, ma in genere le persone che frequentiamo anche occasionalmente sanno di doversene stare tranquille quando parlano di lei 🙂
Riunione con la maestra: “sono contentissima dei progressi. All’inizio dell’anno non i lasciava dare le mie lezioni (-per problemi di comportamento-) e adesso sí! Si mette tranquillo a fare le sue cose”.
E va beh, quindi l’obbiettivo é che non rompa le scatole, fondamentalmente, e nelle (scarsissime) ore in cui c’é l’insegnante di sostegno in classe, mio figlio é affar suo (dell’insegnante di sostegno).
Per ora non sono state attuate misure di adattamenti curriculari (i PEI italiani)perché sono un’arma doppio taglio. Se si arriva alle medie con adattamenti, non si ottiene il titolo. Quindi, bisogna cercare di evitarli il più possibile. LA frustrazione nasce dal fatto che per ora il bambino può seguire il ritmo della classe a livello accademico, ma riuscire a farlo é affar suo…o al limite dell’insegnante di sostegno. L’obbiettivo per le maestre della classe é che non dia fastidio.
Non ricordo dove vivi, però non capisco perchè eventuali adattamenti dovrebbero pregiudicare il conseguimento del titolo; ad es. un disgrafico che ha difficoltà nello scrivere in corsivo oppure necessità di un computer per scrivere ma raggiunge gli obbiettivi di apprendimento perchè non dovrebbe avere il titolo? E’ chiaro che le competenze didattiche devono essere raggiunte, però prevedere verifiche orali oppure scritte non vedo perchè debba pregiudicare il percorso scolastico, è ben grave! Ma come fanno i DSA?
Guardiamo il lato positivo: tuo figlio riesce a seguire il ritmo della classe e vedrai che continuerà così, dobbiamo crederci, diamogli fiducia, l’importanza è che gliene diano anche le sue maestre!
I DSA hanno il PDP, non il PEI, è diverso, e gli adattamenti (compensativi e dispensativi) non pregiudicano il conseguimento degli stessi obiettivi della classe, né la possibilità di ottenere il titolo di studio come gli altri: un software che ti aiuta nella scrittura della matematica non risolve i problemi per te, tanto per fare un esempio, così come la sintesi vocale per leggere con le orecchie o l’essere dispensati dalle interrogazioni a sorpresa o usare una mappa concettuale per orientarsi nell’esposizione orale non cambiano il risultato (l’apprendimento).
Per il PEI, la differenza sta negli obiettivi minimi o programmazione differenziata: i primi possono dare accesso al titolo di studio, la seconda no, ma le due cose non sono immutabili; un alunno può avere un programma differenziato ma se poi si vede che può rientrare negli obiettivi minimi si può modificare (e viceversa).
E poi, come dico nell’altro commento, la programmazione differenziata non viene attuata così alla leggera: la scuola deve informare la famiglia che può dare il consenso o negarlo.
ho risposto in un commento che é finito un po’ più in basso….qua in Spagna il sistema é diverso, se gli adattamenti intaccano i contenuti, non si può ottenere il titolo. Per fare un esempio, se l’alunno é in terza elementare e l’adattamento prevede che l’obbiettivo per lui sia scrivere le sillabe, si tratta di un adattamento curriculare. Se invece l’alunno ha bisogno di una tastiera per scrivere perché disgrafico, ma il livello accademico é pari al corso che sta seguendo, si tratta di un adattamento metodologico e non ci sono problemi per il titolo.
Il problema in realtá non é ottenere o meno il titolo, se gli adattamenti sono davvero calibrati sulle necessità e sulle potenzialità dell’alunno. Il problema sorge quando, per “disfarsi” del fardello e non doversi impegnare in tirar fuori davvero tutto il potenziale, si applica un adattamento curriculare e ci si dimentica allegramente del bambino, lasciato alle cure dell’insegnate di sostegno che comunque non lo può seguire per più di 10 ore a settimana (se si é fortunati). Ah, e gli adattamenti non sono opzionali…se la scuola decide, si applicano e i genitori non possono farci nulla…..
Quindi è più o meno come qua, mi stupisce molto che la famiglia non venga interpellata.
interpellata sí…ma chi ha l’ultima parola é la scuola. In realtá la feccenda é un po’ piú complicata…diciamo che sugli adattamenti puó esserci una certa flessibilità da parte della scuola, ma alla fine di ogni ciclo di studi (scuola materna, terza elementare, sesta elementare, medie) l’equipe di orientamento decide (in base alle valutazioni e agli adattamenti/sostegni necessari) se il percorso continua nella scuola ordinaria o no…e questa decisione é inappellabile (se la famiglia per esempio non é d’accordo sulla derivazione alla scuola speciale, l’unica opzione é andare per tribunali). Per questo tutto quello che si discosta dal percorso ordinario ci terrorizza.
Non sono d’accordo, il PEI non è un’arma a doppio taglio e se gli adattamenti sono programmazione differenziata la famiglia va avvisata e può dare o negare il consenso: non è così facile come sembra.
Il PEI invece è importantissimo, quello di mia figlia la descrive in tutti gli aspetti e definisce per lei obiettivi e misurazione degli stessi: non è per polemica, ma se parliamo di adattamenti dobbiamo essere molto precise nell’indicare cosa siano, o si rischia una confusione enorme.
Poi se il sostegno ha come obiettivo fare sì che il bambino non dia fastidio stiamo parlando ancora di un’altra cosa, che ha a che fare con la conoscenza, la comprensione e il lavoro con l’autismo.
Guarda che mi sa che vive in un altro paese e non in Italia, dove magari ci sono regole diverse, per questo premettevo che non ricordo dove vive ….
Lo so, io parlavo dei PEI italiani, magari nel suo paese gli adattamenti pregiudicano il conseguimento del titolo di studio.
Io parlavo ovviamente dei DSA nel suo paese sopra ….
Ho tralasciato di dire che non vivo in Italia e quindi il mio commento ha creato qualche confusione….qua (in Spagna) ci sono due tipi di adattamenti: metodologici (che non intaccano i contenuti, ma solo i metodi di insegnamento/apprendimento) e curriculari (nei quali si adattano i contenuti). Nel primo caso il conseguimento del titolo non é in pericolo…nel secondo sí. Ed é un’arma a doppio taglio, perché se da una parte bisogna assolutamente privilegiare il percorso di sviluppo e didattico, anche rinunciando al titolo se necessario, dall’altra spesso questo viene utilizzato come un metodo semplice per non doversi fare carico dell’alunno con necessità speciali, abbassando le esigenze e accontentandosi che si metta lí a colorare. Se aggiungiamo che il massimo di ore di sostegno a cui si può aspirare é 10 alla settimana (se si lotta per averne di più, minacciano la derivazione alla scuola speciale), si capisce come tutto lo sforzo spesso sia sulle spalle del bambino e dell’insegnante di sostegno. Quest’anno ce l’abbiamo fatta…ma cosa succederà man mano che le esigenze accademiche si faranno sempre più intense?
Perché io sono d’accordissimo con il concetto del post originale…la “gestione”, la comunicazione, il comportamento e la socializzazione sono importantissimi…ma a scuola i bambini li mandiamo perché imparino, fino al massimo del loro potenziale….