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Concilio dunque sono

Sono parecchio impegnata in cose lavorative e private che, oltre a tenermi occupata, mi generano pensieri e preoccupazioni e gettano qualche ombra sul mio futuro. È proprio questo momento di passaggio dal quale uscirò molto viva o parecchio provata che diventa centrale il mio ruolo di persona e madre che lavora (in Italia).

Ho fatto dei figli perché lavoro da casa grazie a una donna e datrice di lavoro molto illuminata, competente, seria. Altrimenti, da pendolare che ero (Bergamo-Milano tutti i giorni avanti e indrè), e con gli orari di tutti quelli che lavorano in un ufficio, non credo che ce l’avrei mai fatta e anzi, forse non sarei neppure arrivata a desiderarlo: l’avrei messo lì nel posto delle “cose che un giorno farò” e forse sarebbe rimasta solo una vaga ipotesi.

Sono una mamma che ha voglia e bisogno di lavorare, lavorare facendo quello che fa, occupandosi un po’ di redazione, un po’ di social media management, un po’ di tutto e senza smettere mai di studiare, di scoprire quello che il web, uno degli amori più duraturi della mia vita, può offrirmi. Non sono disposta a rinunciarci, perché il mio tempo è speso bene, diviso agevolmente tra le cure che debbo alle mie figlie – specie a una, molto impegnativa – e la cura che metto nel mio lavoro. Mica poco, sapete, datori di lavoro che ancora temete che una madre sia una zavorra, peggio che mai poi se ha passato i trenta (i quaranta non li nomino neanche).

Dunque sì, questo post è anche un appello a chi deve dare da lavorare a qualcuno e pensa che una donna mamma non ne parliamo nemmeno: non state a sentire chi è ancora aggrappato all’idea che una madre si senta – o meglio, voglia sentirsi – sempre e solo una specie di zerbino srotolato davanti ai bisogni, ai vizi e ai capricci di un figlio, sappiamo anche noi quando è possibile delegare e quando no, abbiamo imparato a gestirci uccidere i sensi di colpa, sappiamo fare più cose insieme e farle bene, ci piace vestirci, truccarci, leggere e parlare di cose che non siano sempre e solo cacca-nanna-sonno. Quello lo facciamo perché ci diverte e perché la rete è una miniera di informazioni, ma nessuna di noi vorrebbe davvero farlo da mane a sera. Se poi siete così evoluti da metterci – noi mamme, ma anche noi donne e uomini quando necessario o utile o vantaggioso – in condizioni di lavorare bene da casa be’, ne avrete in cambio buone cose.

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Speriamo solo che non voglia un pony

Mi chiamo Daniela e da sempre tutti mi chiamano Dani. Che va benissimo, al mio nome zippato gli voglio anche bene oramai, però ho sempre pensato che ai miei figli avrei dato un nome corto, difficile da accorciare.

Dunque la lunghezza del nome fu il primo dei criteri per scegliere come avremmo chiamato la nostra prima figlia. Il secondo fu darle un nome familiare anche agli anglofoni: parte della nostra famiglia è nata e vive in Canada, parla solo inglese e non ha ancora capito che non mi chiamo Daniella con due elle, dunque almeno con la pupa volevamo fare le cose facili.

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Il libro di Lisa, che un giorno tirerò giù dallo scaffale della libreria e le regalerò

Il terzo motivo, non in ordine di importanza, per fortuna soddisfa anche gli altri due ed è  Lisa Simpson, uno dei personaggi più belli  – anche antipatici eh, ma ci sta –  creati dalla fantasia di un cartoonist.
E che voglio, allora? Una figlia che cresca saccente, secchiona, vegetariana e buddista e ci guardi un po’ dall’alto in basso chiedendosi se davvero condivide i suoi geni con i nostri? Non proprio tutto questo, ma mi piacerebbe che questa Lisa si portasse dentro una scintilla simpsoniana in grado di farla crescere curiosa, bambina finché sarà bambina e non piccola adulta, amante della musica, moderatamente femminista e intelligente abbastanza da guardare al di là del suo piccolo orticello quando sarà necessario.

P.S.: e poi ogni anno posso farle sentire Michael Jackson – che poi non è proprio lui ma va bene lo stesso – che le canta buon compleanno.

Happy birthday Lisa
I wish you love and goodwill
I wish you praise and joy
I wish you better than your heart desires
And your first kiss from a boy

 

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Sono un pirata, o forse un torero

Il mio odio per il Carnevale – brutti ricordi sepolti dall’inconscio, evidentemente – più una mancanza cronica di denaro mi avevano tenuta tranquilla nelle scorse settimane: niente costumi per la Bruna e per la Bionda, avrei convinto le maestre dei rispettivi asili che anche le pupe, in fondo in fondo, del Carnevale non sapevano che farsene. Il che è in parte vero, essendo così piccole che non ho proprio idea di cosa possano pensare di un giorno in cui tutti all’asilo hanno strani vestiti, antenne e parrucche.

Ma poi ho ceduto: di fronte agli avvisi piazzati nelle bacheche e ai sorrisi gentili delle maestre ho pensato che omologare è meglio che evitare, almeno in questi teneri anni, e che un travestimento si poteva pure fare. Il secondo step è stato come arrivarci, al travestimento, dato che soldi zero e abilità manuali di mamma meno di zero. Com’è ovvio, Internet anche questa volta mi ha salvata (grazie, MammaFelice).

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La Bruna col suo cappello da orso pirata

Insomma, alla fine abbiamo partorito un costume che vorrebbe essere da pirata ma senza cappello non si capisce e potrebbe benissimo essere da torero, ma chi se ne frega. Speriamo che il cappello non ceda e che oggi la Bruna si diverta, e soprattutto che all’asilo non ci siano lingue di Menelik a terrorizzarla. Per la Bionda il turno di fare “ahrrr”, tipico verso dei pirati (se non lo conoscete non guardate abbastanza Bubble Guppies), verrà domani.

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