la mia idea sul ruolo dell'insegnante di sostegno a scuola
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Non dire sostegno

I genitori di un bambino che ha bisogno dell’insegnante di sostegno ma non ne ha uno di ruolo, passano ogni estate pregando e sperando: di ritrovare il bravo insegnante dell’anno precedente, di non trovarlo più, di trovarne uno migliore o almeno bravo quanto quello che se ne è andato. Gli ultimi in ordine di malasorte sperano che il sostegno arrivi, uno qualsiasi, magari non troppo avanti nel tempo.

Ma perché ci agitiamo tanto? Provo a rifletterci e a mettere giù qualche punto sull’importanza e il ruolo del sostegno.

L’insegnante di sostegno è un insegnante di classe

Cosa vuol dire davvero questa frase che tutti recitiamo come un mantra? Ho apprezzato che la maestra di italiano di mia figlia, il primo giorno di scuola di questa terza elementare, abbia ripresentato il sostegno della Bruna dicendo che erano tutti felici che la maestra L. fosse tornata: solo una maestra, e maestra di tutti. Non per rispetto della nostra privacy – tutti sanno chi è la bambina che ha il sostegno – ma per rispetto e riconoscimento del ruolo di questa figura che partecipa alla vita di classe, alle riunioni e ai colloqui con i genitori insieme alle altre maestre, che conosce i bambini e i loro genitori e anche per loro è spesso un punto di riferimento.

Ed è così che dovrebbe essere: sarebbe meglio togliere la parola sostegno e sapere che, quando c’è bisogno di un insegnante in più, questo può arrivare e fare da tramite tra classe e maestre curriculari e il bambino più fragile, per includerlo. Che bella parola l’inclusione, che cosa difficile da realizzare: questo sarebbe già un buon inizio.

Quindi è sempre il caso di ribadirlo, anche per noi genitori: il sostegno non è una baby sitter, non è “la sua insegnante” e il bambino non è “il suo bambino”; togliersi subito da questa prospettiva aiuta tutti a orientare le richieste e a passare oltre per capire cosa succede a scuola una volta che il sostegno è arrivato.

Se il sostegno è un maestro di classe, allora anche il bambino è della classe

Arrivano le note dolenti: cosa succede quando il sostegno non c’è? Visto che il bambino è della scuola, la scuola deve pensare a come accoglierlo comunque, tutti i giorni, compresi quelli in cui il sostegno non è presente, magari perché non è ancora stato nominato. È difficile? Molte volte lo è sul serio, ma andare a scuola (dell’obbligo, oltretutto) è un diritto da rispettare.

Cosa può succedere e a volte succede: che i genitori si sentono chiedere di tenere a casa il bambino fino a quando non arriva il sostegno, o a non fargli fare l’orario completo. Non credo di dover spiegare perché queste siano richieste irricevibili, che in questi casi non è possibile appellarsi alla collaborazione e al diamoci un mano tra scuola e famiglia: come genitori possiamo essere concilianti su altre cose, su questa proprio no.

Perché cediamo? Perché non sappiamo che è una richiesta illegittima, perché pensiamo che effettivamente il bambino potrebbe stancarsi a stare tutte quelle ore a scuola, per non restare in ansia tutto il tempo e perché è difficile rispondere “non è un problema mio come vi organizzate, il bambino viene a scuola comunque”.

Allora se il bambino è della classe e della scuola, perché ci teniamo così tanto al sostegno?

Il sostegno sta lì per la didattica e anche perché il bambino possa partecipare – a suo modo e per quanto tempo riesce – alla vita della classe, imparando con la classe.

Con professionalità e con la collaborazione degli altri insegnanti può  stimolare il bambino a prendere parte a una vita comune in tutte le sue pieghe e momenti diversi (la lezione, l’intervallo, la mensa), e il resto della classe a vivere la presenza del compagno come una occasione di sperimentare e imparare a gestire il rapporto con la disabilità.

Di più ancora: la classe intera potrebbe beneficiare di un modo inclusivo di fare didattica. I bambini non sono mica tutti o bravissimi o disabili: ogni realtà ha mille sfumature e in ogni classe possono esserci uno o più compagni che, in un momento di difficoltà o per caratteristiche individuali, potrebbero rispondere meglio a una didattica “allargata”. Una occasione in più per dare risalto alla varietà degli stili di apprendimento individuali.

E ancora di più: quando ci sono le condizioni, che sono strettamente individuali, il sostegno è la via verso l’autonomia, verso la possibilità di provare a vivere e misurarsi con la scuola e le sue prove proprio come fanno i compagni.

Questo è il motivo per cui storciamo il naso di fronte all’uscita sistematica e non motivata dalla classe: perché a scuola si va anche per imparare come starci e come riuscire insieme agli altri. Conta più una verifica fatta così così in classe, insieme ai compagni, in autonomia, stando attenti alle richieste, o una verifica perfetta dopo giorni solitari di studio in una auletta di sostegno?

La questione delle ore di sostegno

Tre cose:

  • Se il PEI, il Piano Educativo Individualizzato, è fatto bene e specifica quanto sostegno è necessario per il bambino, allora le ore indicate devono essere rispettate. Spesso le ore che arrivano alle scuole non sono sufficienti, ma ci sono modi per provare a ottenerle prima di passare al ricorso. La condizione di base è la trasparenza della scuola, che deve spiegare ai genitori la situazione e non tentare di compensare in qualche modo le ore di sostegno mancanti, per esempio dividendo il sostegno su due allievi disabili che invece dovrebbero avere un rapporto 1:1
  • Chi ha diritto alla copertura totale ne ha bisogno davvero, significa che è sempre nella condizione di dover essere agevolato nella sua vita scolastica. Molti di noi, invece, si adattano a compromessi che non sempre reggono tutto il tempo: il compromesso è fragile e, appena cambiano le condizioni, le situazioni in apparenza ben aggiustate possono saltare in aria con gran danno per tutti
  • Noi genitori non possiamo dare battaglia per le ore e per il sostegno e poi, una volta ottenuto tutto, sentirci al sicuro perché nostro figlio ha “il suo insegnante”: la qualità della vita a scuola dipende anche da quanto sappiamo del contesto e delle sue regole, per poter chiedere le informazioni importanti, partecipare alle riunioni giuste, sapere quante ce ne devono essere, collaborare alla stesura del PEI e molto altro ancora. Non si tratta di trasformarsi in guerrieri in armatura sempre pronti a fare pelo e contropelo alla scuola (non è detto che ce ne sia bisogno e bisogna riconoscere che le difficoltà oggettive ci sono e pesano come macigni) ma di collaborare per la riuscita del successo scolastico dei nostri figli, misurato e calibrato sulle loro capacità, potenzialità e risorse.

Che fare?

Io lo so perché ci sono passata: i primi anni di asilo di mia figlia li ho spesi a imparare come funziona la scuola e mi sono adattata a situazioni che adesso, con il senno di poi, avrei potuto cambiare. È andata bene lo stesso, ma l’idea che sarebbe potuta andare ancora meglio ogni tanto mi fa ancora arrovellare. 

Per fortuna, come dicevo già in un post di qualche tempo fa, c’è Internet che viene in soccorso. Cito tre gruppi Facebook che fanno un gran bel lavoro e sui quali si può contare per avere riferimenti normativi e consigli utili:

E poi:

  • Ledha – Lega per i diritti delle persone con disabilità
  • Fish Onlus – Federazione italiana per il superamento dell’handicap
  • Handylex – Disabili: diritti e agevolazioni, in particolare la sezione Diritto allo studio
  • Cos’è un GLHO, il Gruppo di lavoro per l’handicap operativo che elabora il profilo dinamico funzionale e il piano educativo individualizzato, per sapere chi partecipa e come funziona
  • Da sapere sul PEI
  • Chi è l’assistente educativo e come lavora
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Insegnare, imparare

Una volta, due volte, tre volte, tante volte amici e sconosciuti mi hanno chiesto: allora, ma tua figlia (seconda elementare finita) sta imparando a leggere e scrivere qualcosa?

Cosa mia figlia in particolare sappia fare non è rilevante perché tutti i bambini hanno capacità e potenzialità diverse e così i bambini autistici. Quando la domanda ha smesso di stupirmi, mi sono guardata intorno per misurare la differenza tra quello che sappiamo noi genitori e gli insegnanti e i terapisti e quello che il mondo vede da fuori.

Quel che il mondo vede da fuori, per inconsapevolezza e una visione che mi pare perenne dell’autismo, è che la persona autistica a scuola sia una persona da gestire, prima che una persona alla quale sia possibile insegnare qualcosa (ditemi se mi sbaglio: vorrei tanto sbagliarmi). Se è legittimo che la parte comportamentale e di “gestione” in senso largo sia un po’ la base sulla quale lavorare, non può essere sempre una fase a tempo indeterminato: di storie di bambini impegnati a fare nulla a scuola credo tutti noi che viviamo l’autismo ne conosciamo troppe.

Se il bambino è pronto per imparare qualcosa, deve imparare qualcosa, se possibile con un metodo che assecondi il suo modo di imparare e lo metta a frutto. Si può fare, costa fatica e tanto studio ma si può fare: un qualsiasi insegnante di sostegno e un qualsiasi docente curriculare ci possono riuscire, se supportati adeguatamente e se disponibili ad ascoltare i genitori e i terapisti.

Come mi sento? Lo confesso, a volte mi sento percepita come una esaltata che non sa accettare i limiti di sua figlia e insiste, insiste, insiste sulla didattica e sul farla lavorare. Passa subito, è una fiammata di incazzatura ma mi fa riflettere perché la posta in gioco è tanta, e pesante: il futuro e l’autonomia – emotiva, relazionale, quotidiana, lavorativa, sociale – di una persona che sarà autistica per sempre, con relativi costi spalmati su tutti, tutti noi, anche se pensiamo che questa cosa non ci riguardi poi mica tanto.

Poi succede che a un certo punto incontro il mondo dei DSA – i disturbi specifici dell’apprendimento – inizio a conoscere gli strumenti compensativi e dispensativi, cioè le misure che abilitano chi ha difficoltà di lettura o scrittura o di altro tipo a farlo nel modo migliore e le misure che lo dispensano da prestazioni gravose e che non migliorano l’apprendimento (per esempio, detto alla buona: se un bambino ha difficoltà di lettura specifiche non migliorerà esercitandosi a leggere continuamente).

In breve, succede che cado dal pero, prendo una brutta botta e mi dico: ma possibile che per mia figlia non esista nulla di tutto questo? Ma perché anche il suo PEI non può indicare le stesse misure e tracciare una via chiara per la sua educazione e istruzione? Lo so che c’è chi lo fa e che io mi sveglio sempre tardi e so che anche i DSA hanno le loro gatte da pelare, che tutto è da valutare e adattare a ogni singola necessità, ma la domanda rimane: cosa dobbiamo fare perché la scuola insegni le cose giuste nel modo giusto ai nostri figli?

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come va la seconda elementare della Bruna
La Bruna

Seconda elementare (e la matematica)

La seconda elementare sta andando bene. Niente resoconti dettagliati, faccio solo il punto sulle cose che funzionano e spiegano cosa intendo quando dico “bene”.

Le cose che vanno bene sono semplici:

La conferma della insegnante di sostegno e un numero adeguato di ore di sostegno (22). Non è detto che a una maestra brava non possa seguire una maestra anche più brava ma, nel dubbio, sposo la continuità.

La maestra della Bruna è capace: le vuole bene ma non le fa le carezze, la fa lavorare spingendo sempre il traguardo un po’ più in là dove ha capito che mia figlia può arrivare o arriverà, solo con i suoi tempi e spesso modi diversi di apprendere visto che la neurologia è diversa.Mi ha colpito in particolare una sua frase riferita ai compiti e agli obiettivi che fissa per la Bruna: “Parto sempre dal massimo, per semplificare c’è sempre tempo”.

È l’atteggiamento mentale corretto, non perché la semplificazione non vada bene ma perché ogni bambino va messo in grado di esprimere il potenziale che ha e non è livellando tutti e tutto verso il basso che lo si capisce: lo sottolineo soprattutto in riferimento a un video che mi hanno raccontato nel quale un preside dice che spesso bisogna togliere ai genitori di disabili questa idea che i loro figli possano fare tutto e che quindi la scuola serva anche a riportare alla realtà le famiglie.

Continuità è una bella parola: significa non dover ricominciare tutto da capo ogni anno e vale anche per le maestre curriculari, sollevate dal compito di costruire un rapporto nuovo ogni settembre, per i bambini di tutta la classe, per gli educatori e i terapisti che stanno fuori dalla scuola ma è bene che ci entrino ogni volta che è possibile farlo.

Conoscere un bambino autistico non è semplice come non lo è conoscere qualsiasi altro bambino: punti di forza e debolezze sui quali si costruisce un lavoro di fino che tenga conto degli aspetti comportamentali e relazionali ma anche (a volte soprattutto) della didattica.

Bisogna fissare obiettivi, trovare gli strumenti giusti per un bambino che è come la mia, che impara diversamente dagli altri e con tempi diversi dagli altri, tarare la quantità e la qualità del lavoro, capire come restare nel gruppo senza ricorrere alla via  dell’uscita dalla classe e poi costruire tutti insieme anche un PEI che parli chiaro.

Le maestre o i maestri che vogliono lavorare per includere il più possibile anche chi ce la fa meno degli altri. Nel nostro caso, una parte del lavoro in classe va in quella direzione: fare in modo che la Bruna ascolti e segua le indicazioni delle maestre senza fare sponda sempre sul sostegno, un passo verso un po’ di autonomia in più che rafforza anche all’autostima. Stimo molto le maestre della Bruna e anche io vorrei parlare di più direttamente con loro, ma il tempo è quel che è.

La presenza di un punto di riferimento come la nostra supervisora ABA con le sue indicazioni rispettate e messe in atto, ma in generale la possibilità che chi è competente aiuti la scuola (non deve per forza corrispondere a una figura privata e pagata dalla famiglia): nessun esterno entra in classe – fisicamente o meno – per giudicare chi educa e vive ogni giorno con i bambini ma per dare strumenti e indicazioni utili.

L’educatrice che conosce la Bruna e la sa prendere senza dubbio meglio di me, per esempio. Ci vorrebbero più per darle più spazio di manovra e, in generale, una maggiore considerazione per la preparazione di una figura che dovrebbe sempre essere specializzata e formata.

Tutto il gruppo di lavoro esterno: logopedista, i terapisti e psicologi del centro autismo, la psicologa che ci coordina tutti. Più tutte queste figure si parlano e scambiano valutazioni e strategie, più ci sono le basi per vedere dei miglioramenti su tutti i fronti.

Dico sempre che siamo fortunati e che la parola fortuna non dovrebbe esistere in un contesto come questo, dove ci sono delle difficoltà ma in genere tutto funziona bene giorno dopo giorno. Io non sono a scuola ma mi fido di quel che succede a scuola e so bene che è un sentimento di lusso che tanti genitori non provano e non per partito preso.

Poi c’è la matematica

Ogni materia ha le sue spine, qualcosa viene meglio, qualcosa fa sudare di più e senza dubbio la matematica è una di queste ultime. Sarà che per un pensiero concreto il livello di astrazione della matematica è subito un ostacolo e quindi ci vogliono alcuni passi in più per arrivare là dove un altro bambino arriva prima: oggetti da toccare, da dividere, da mettere insieme, concetti semplici come “aggiungere” o “togliere” che vanno interiorizzati prima di passare a “più” e “meno” e via dicendo.

Tutta una scusa per arrivare al momento in cui la mia amica C. mi ha parlato di Daniela Lucangeli, che in tre minuti dice tutto meglio di quanto potrei mai fare io:

Chiudo qui con la frase finale del video, perfetta per descrivere l’insegnante e la scuola che vorremmo, dovremmo sempre incontrare e riguarda tutti i bambini, non solo quelli come la mia:

“Non vorrei mai che la scuola fosse talmente concentrata sugli aspetti di procedura e di algoritmo formale da non accorgersi che sta perdendo di vista l’intelligenza che sta sotto”.

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