la bruna e gli interventi per il suo autismo, e il nostro ruolo di gemnitori e terapisti
La Bruna, lavori da mamma

Perché faccio la terapista di mia figlia

Un’ora di logopedia, un’ora di psicomotricità a settimana. Appena ricevuta la diagnosi le consegne sono state queste perché queste, più o meno, sono le cose che ti passano le ASL (non in tutti i casi: nel nostro va peggio perché la neuropsicomotricità è esclusa). Qualche indicazione sommaria aggiuntiva e ci rivediamo al prossimo test.

In breve, eccoti da solo e senza alcuna cultura specifica a cercare di capire cosa fare per tuo figlio: non c’è un genitore capace di sedersi e aspettare che i risultati arrivino, altrimenti non si spiegherebbe perché i gruppi dedicati su Facebook pullulino di padri e madri in cerca di qualcosa di meglio, eppure sembra che ti stiano proprio suggerendo di metterti comodo e stare a vedere che succede.

La riprova è che tanti di genitori, me compresa, a un certo punto si sono trovati davanti un terapista o un neuropsichiatra o altro che ha pronunciato questa frase: “va bene, lei vuole aiutare suo figlio ma lei pensi a fare la madre, non a diventare terapista di suo figlio”.

Fare la madre? Cucinare, lavare i panni, portarla a scuola e soffiarle il naso? Girare come una trottola tra patronati, INPS e uffici da brava mamma passacarte? Cosa mi state dicendo quando mi suggerite di fare la madre? Di tenerla stretta e accarezzarle la testa e provare senza successo a consolarla quando i sensi prendono il sopravvento e la portano là dove nessuno può arrivare?

Giuro, non lo so cos’è che muova un’osservazione così insensata. L’amore non diminuisce se a un certo punto ti metti a tavolino con tuo figlio a fare quello che gli serve per capire meglio il mondo o esprimersi meglio, né svanisce se cogli ogni occasione di vita quotidiana per trasformarla in un momento di apprendimento o di evoluzione: chi fa ABA e chi decide di prendere in mano la situazione in generale sa di cosa sto parlando, sa che questi momenti non sono una “pausa terapia” avulsa dal resto della vita ma sono vita di tutti i giorni. Garantisco: l’amore non diminuisce e mia figlia non porterà per sempre in sé una ferita da madre-terapista.

Ognuno prende le sue decisioni e io so molto bene cosa voglio e cosa no: non voglio aspettare l’evoluzione naturale di mia figlia perché so che non sarà mai abbastanza, non credo nel potere di abbracci e affetto e carezze e passeggiate nella natura, credo sia mio dovere costruire sull’amore attraverso il lavoro perché è questo lavoro che ha gettato un ponte tra e me questa Bruna misteriosa e ci ha permesso di capirci a vicenda mentre prima, seppure madre e figlia e sangue del reciproco sangue e tutta quella roba lì, vivevamo in due universi che si sfioravano appena.

L’interpretazione del ruolo di genitore di figlio disabile, mi pare da quel che leggo e sento, genera un equivoco corposo: quando reclamiamo più interventi sensati e convenzionati per i nostri figli non significa che vogliamo consegnarli al terapista di turno e aspettare che avvenga il miracolo. L’opposto, semmai: avere il sollievo di non doversi accollare al 100% costi inimmaginabili dà la serenità indispensabile per fare quello che conta: pensare, studiare, prendersi cura con cognizione di causa di un figlio. Ma se il suggerimento di “fare il genitore” arriva proprio da chi dovrebbe favorire una cultura di continuità tra quel che succede a terapia e quel che accade a casa, allora siamo ancora a distanze siderali da una realtà che includa e operi davvero per migliorare la vita e la sua qualità a chi più ne ha bisogno: in questo senso anche la migliore legge (che comunque non c’è), non sarebbe abbastanza.

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La Bruna, lavori da mamma

Per iniziare, tanto vale iniziare bene (il ROI e mia figlia)

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Due ore bastano? Ma sì, per iniziare bastano. È la risposta che per un po’ ho silenziosamene accettato in tema di terapie per la Bruna. Due ore la settimana, una di logopedia, una di neuropsicomotricità. Su una bambina di 3 anni e mezzo, quando il mondo che ruota attorno all’autismo grida “intervento precoce intensivo!”

Fai la mamma, non la terapista, mi hanno detto. Non ce la faccio, sono una brava mamma e voglio anche impicciarmi di quel che riguarda i progressi di mia figlia.

È un’abitudine sviluppata con il lavoro, e nel lavoro come nella vita la frase “ma sì, tanto per iniziare facciamo così”, ovvero facciamo poco, improvvisiamo, andiamo a tentativi non mi entusiasma.

Iniziare bene significa portarsi avanti e avere dei vantaggi dopo. Io lavoro nel social media management, cerco di dare un senso alla presenza online di chi ha una piccola attività e incontro per prima cosa la paura che deriva dalla poca confidenza con un mezzo: non so cos’è un dominio, non so cos’è WordPress, non so cos’è un hosting, per iniziare avere un sito tutto mio è troppo, mi accontento.

Non lo è. Basta qualche ora su Google per farsi un’idea e su Facebook, ad esempio, si trova sempre l’amico che ne sa qualcosa e può aiutare. Non si tratta di farsi un sito studiatissimo ma di andare online con due o tre cose basilari: un nome, uno spazio confortevole, un posto d gestire in autonomia. Poi si impara meglio, ma iniziare bene ti mette in condizione di poter lavorare bene e crescere bene.

È per questo che anche con la Bruna credo possa funzionare così: se facciamo uno sforzo adesso credo che capitalizzeremo per il futuro. Vogliamo iniziare bene: ci costerà qualcosa ma sono convinta che ci darà indietro molto di più. Per rimanere nell’esempio, questo è il ROI, il ritorno sull’investimento personale su cui abbiamo voglia di scommettere.

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lavori da mamma

Domande da non fare a una mamma di bimbo autistico (o, quanto meno, a me)

Domande e cose che preferirei non sentirmi dire quando spiego che la Bruna è nello spettro autistico ce ne sono, purtroppo. Io non sono arrabbiata con il mondo: capisco molto bene quella sensazione di imbarazzo che fa nascere parole sempre inadeguate per questo tipo di rivelazioni ma, siccome credo che prevenire sia meglio di curare, ecco una piccola guida per affrontare con disinvoltura minima una conversazione con me e probabilmente con qualche altra madre di bimbo autistico.

Io e la Bruna

Io e la Bruna

1 – Sono stati i vaccini?
Io non ci credo e non mi dilungo oltre, siccome la cosa è strettamente personale – al di là delle evidenze scientifiche ognuno sceglie in cosa credere e in cosa non credere – con me è meglio evitare di addentrarsi nella discussione (perché non c’è nulla di cui discutere).

2 – I bambini speciali sono dati a genitori speciali.
E tutta la parafrasi del genere, da “Dio vi ha scelti per una ragione” al pessimo “meno male – nel male – che è capitato a voi”. Grazie della stima ma no grazie: non sortisce effetto consolatorio ma ti fa sentire uno sfigato anche peggio di quello che sei, e non è un bel sentire. Oltretutto noi non ci sentiamo particolarmente dotati di armi intellettuali o economiche o di altro tipo che ci rendano più adatti a gestire questa cosa. Siamo una famiglia normale che avrebbe desiderato una vita più semplice per noi stessi e per le nostre figlie.

3 – Non sembra proprio.
E lo so, e in fondo è quella che mi dà meno fastidio. Solo che, come sopra, ti fa sentire peggio. Meglio invece se accompagnata da “ma come ve ne siete accorti?” o richieste di piccoli chiarimenti su cosa sia l’autismo, che ha uno spettro che va da Rain Man a funzionamenti molto bassi. Ricordare sempre: ogni bambino autistico è a sé.

4 – Guarirà?
Sì e no (nel senso che si può chiedere ma anche no): nessuno pretende che il mondo sappia cosa sia l’autismo ma comunque no, non si guarisce, il cervello sarà sempre quello e la visione del mondo sempre speciale.

Ma insomma, non mi si può dire niente? Lo ribadisco, può capitare, e in realtà sono più le volte in cui ci vengono dimostrare comprensione e attenzione rispetto a quelle in cui appaiono queste domande. E poi io non mordo, al limite alzo scortesemente gli occhi al cielo.

È facile capire come sia più rincuorante sentirsi chiedere “E tu come stai? Te la cavi? Come l’hai presa?” rispetto a “Sei stata scelta come mamma della Bruna perché sei speciale”. È uguale a tutte quelle volte in cui, quando sei neomamma, tutti ti danno consigli che non vuoi perché vuoi fare di testa tua, uguale alla sensazione di sentirsi dire “mettilo giù che si vizia” quando l’unica cosa che vuoi è tenere sempre in braccio il fagottino che ti è appena uscito dal corpo. Ecco, esattamente così.

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