La scuola materna dell’infanzia è arrivata, e con lei un carico di sorprese e – non si finisce mai di imparare – anche parole nuove. Con la Bruna ci siamo addentrate in un mondo a noi del tutto sconosciuto, parecchio diverso dalla realtà ovattata dell’asilo nido, e abbiamo imparato che tutto va imparato più in fretta, che i ritmi sono più frenetici e le maestre più sbrigative (e ai miei occhi delle eroine per sapere badare da sole a 26 mini-energumeni di 3-4-5 anni).
Mentre la Bruna digerisce ogni giorno di più la sua nuova casa, io digerisco la realtà della scuola materna, una di quelle cose che finché non le vivi quasi non ci credi, e cioè la fatica di mandare avanti una scuola statale dovendosi appoggiare alle famiglie, alle quali si chiede di tutto di più, dai fazzoletti per il naso alla colla stick fino al portalistini. Porta che? Ecco la parola nuova, ancora semisconosciuta perché non ho ancora visto di che diamine si tratti. Per fortuna, almeno, non portano il grembiule. E i buoni pasto? Quattroeuroesettanta al giorno, grazie (ma è una benedizione pagare solo questo dopo essere passati dalla gogna della retta del nido).
E siccome scendo un po’ dalla montagna del sapone, apprendo così a caso che all’asilo si fa pure religione. In attesa di capire se tocca pure ai treenni o solo ai più grandi, mi domando che fare: la escludiamo o le diamo l’opportunità di sentire un po’ che cosa avrà da raccontare la maestra? Vorrei riporre una piccola speranza in un modo di fare religione che sia un insegnamento di comprensione e accettazione delle differenze, di educazione alla gentilezza e alla generosità, di valorizzazione di diversi punti di vista – credo si possa fare anche con i più piccoli, proponendo un percorso adeguato – ma ho paura che si cada invece nell’indottrinamento duro e puro, senza via di mezzo. Sfruttare le conversazioni mammesche agli orari di entrata e di uscita mi sembra l’unico modo valido di capire e decidere che fare.