parole definizione disabilita
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Parole dinamite

Mio padre è stato cieco a lungo. Non ci vedeva nulla. Quando lo è diventato, la vita è cambiata molto per tutti noi: per lui che doveva abituarsi a fare tutto senza vedere mentre noi attorno dovevamo capire soprattutto come non intralciarlo. Abbiamo imparato tante cose che prima, quando stavamo tutti bene, erano banali, irrilevanti: una porta socchiusa è particolare trascurabile, ma con un cieco che gira per casa le porte devono essere aperte o chiuse perché la via di mezzo significa pericolo di porta in faccia, proprio di taglio, cosa che fa davvero male.

È un dettaglio che mi è tornato in mente quando ho sentito del licenziamento della responsabile del casting del film di Francesca Archibugi per la Rai, rea di aver pubblicato su Facebook un elenco di persone ricercate per una serie tv, compreso un disabile o nano che ispirasse tenerezza. Mi dispiace che ci abbia rimesso lei che immagino non si sia fermata nemmeno un secondo a pensare all’ambivalenza della parola “tenerezza”.

Come una porta socchiusa, per un neurotipico la parola tenerezza non evoca nulla oltre al suo significato immediato: sei tenero, hai uno sguardo dolce, viene voglia di abbracciarti e di volerti bene. Invece, in questo mondo dove sta anche mia figlia la parola tenerezza fa rizzare i peli sul collo, è una presenza ingombrante che prende il posto di tutta una persona e la rimpiazza con una retorica della disabilità che, abbiate pazienza, ci esce dalle orecchie.

Non vi state sbagliando, voi che pensate e già, ma questo cercavano e questo hanno scritto, come potevano fare altrimenti? In effetti per ora non vedo grandi margini di intersezione tra due mondi che non si toccano, dove alcune parole continueranno ad avere effetti molto diversi.

Forse l’unica cosa sensata da fare sarebbe risalire la corrente, tralasciare la responsabile del casting e andare su su fino a capire che storia dovrebbe raccontare questa fiction, perché di questa diatriba stiamo parlando in quattro gatti ma quelli che vedranno la tv e faranno l’associazione disabile-tenerone e famiglie con disabili-poverini potrebbero essere tanti, tanti di più.

Conforta (?) sapere che non siamo soli, perché in Gran Bretagna si parla dell’uscita del film “Me before you”, storia di disabilità, amore ed eutanasia, e in relazione a questo:

  • della scelta di un non-disabile per interpretare la vita con la quadriplegia
  • della scelta della regista di non lasciare spazio ai momenti più duri della vita di una persona con enormi difficoltà fisiche “per non turbare troppo il pubblico”
  • della scelta del pezzo del Guardian di definire il protagonista “confinato su una sedia a rotelle” quando è chiaro che per chi ci vive – come dice un lettore – la sedia a rotelle è uno strumento che dà autonomia, non una prigione. Di nuovo, parole ed espressioni che esplodono e fanno danni.

Non ho grandi proposte se non quella di cercare, da entrambe le parti e in qualche modo, un terreno comune meno scivoloso possibile. Per il momento, non posso che citare la conclusione del pezzo del Guardian anche in relazione alla sventura della responsabile del casting della fiction Rai:

“It’s hard to disagree with the reader’s conclusion that, in future, editors should take a long look at pieces they commission which involve disabled people and ask themselves whether they are unwittingly propping up outdated and harmful stereotypes.”

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3 thoughts on “Parole dinamite

  1. francesca m says:

    A parte il fatto che non ho capito perchè cercassero in via preferenziale “un nano” – io personalmente non sono tanto per il polity correct. Se cercavano una certa immagine della disabilità allora hanno fatto meglio a scriverlo, ad essere chiari, tanto che differenza c’è tra scriverlo tra i requisiti oppure scegliere durante il casting il disabile che gli sembrava più “poetico”? L’unica differenza che ci vedo è l’ipocrisia, che personalmente mi da molto più fastidio del resto.

    In natura tutti i cuccioli sono dotati di fattezze che li rendono “teneri”, proprio perchè la natura sa che sono in una condizione di non autonomia e la loro sopravvivenza passa dal supporto e dalla cura degli altri.

    In realtà, ad essere cinici, anche ad un disabile “conviene” essere “tenero” e non indisponente, perchè – e questo vale per tutti a tutti i livelli – più ispiri simpatia e buoni sentimenti – più sarai trattato bene. Pensare che un educatore, un medico, un infermiere non si lasci mai influenzare dalle proprie emozioni è impossibile: ovviamente questo non vuol dire giustificare i maltrattamenti, gli abusi o le discriminazioni. Solo riconoscere che le attività di cura diventano più “leggere” e più gratificanti se si provano determinati sentimenti, tra i quali la tenerezza. La tenerezza e la pietà servono proprio per smuovere nelle persone delle azioni altruiste. Certo suscitare sentimenti di pietà non è affatto bello, anzi è molto fastidioso, però delle volte penso che vengano chieste alla “cultura” delle cose impossibili, degli atteggiamenti che non possono che essere ipocriti. D’altronde non penso che essere genitori di un bimbo disabile sia la stessa cosa dell’essere genitori di un bimbo sano (posso sperimentare tutti i giorni con il mio piccolo la differenza che c’è), e neanche che siano due cose diverse ma equivalenti, per cui suscitare pietà è abbastanza normale. L’unica cosa che posso dire – ma che tanto se non ci sei dentro non lo capisci – è che si vive in maniera più forte con dolori e gioie più intense. Però io ne avrei fatto a meno volentieri, soprattutto dell’ansia per il domani, visto che il presente non è così male. E credo che pure i nostri cuccioli ne avrebbero fatto a meno volentieri dei loro problemi. E in quest’ottica il “poverino” e i “poverini” ci stanno, l’importanza è che la società faccia di tutto per permetterci di arrivare dove possiamo e che i “poverino” vengano usati per riconoscere e affrontare i problemi e non come scusa per il non fare niente e non richiedere nulla.

    Ma vabbe io sono abbastanza cruda e cattiva.

    • Daniela Scapoli says:

      Possiamo parlare di tutto quello che hai detto ma la sostanza è sempre quella: da una parte questa parola è perfettamente inserita in un mondo, da questa parte fa del male. Non è la tenerezza in sé, forse non mi sono spiegata: va benissimo esserlo, normali o disabili che si sia, se vogliamo usare queste due parole. Ma è la rappresentazione del disabile “tenerone” che comunica sempre e solo una parte di un mondo assai più complesso: come dire, insomma, che non ci sono (non ci possono essere), disabili brutti, o antipatici, o semplicemente stronzi, ma che disabile = cuore d’oro/bontà assoluta. Non mi piace, stiamo parlando di persone intere.

      Sul poverino non mi troverai mai d’accordo, perché è un’altra di quelle immagini che dicono “due buffetti sulla guancia e poi ciao”. E invece mia figlia ha bisogno di tutt’altro atteggiamento se deve fare parte di questo mondo al pari degli altri, altrimenti possiamo sotterrare subito la questione inclusione. Non è questione di essere crudi e cattivi, ma di percezioni e di decisioni.

  2. francesca m says:

    Sulla questione “tenerezza” penso ci sia stata una certa incomprensione. Per me è un sentimento che prova l’altro di fronte al disabile non perchè la persona “disabile” sia buona, o solo buona, o non possa avere “cattive intenzioni”, ma semplicemente perchè le difficoltà dell’altro fanno nascere un sentimento misto di tenerezza e pietà che la natura umana stessa ha creato per attivare un’azione di cura, per determinare un’azione altruistica. Un sentimento importante, perchè va a sostituire (o almeno integrare) sentimenti negativi di paura, disgusto, allontanamento, sopraffazione.
    Ovviamente questo al di fuori di un rapporto di relazione che permette di conoscere le qualità e i difetti della singola e unica persona.
    I “poverino” anche se fanno schifo per chi li deve sopportare sono alla base di politiche quali “le categorie protette” nei lavoratori o “pensioni di invalidità”. Per me “poverino” è riconoscere le difficoltà e fare qualcosa, non è un dire qualcosa per non fare nulla e lavarsene le mani. E’ ammettere che alcune situazioni non sono solo diverse, ma oggettivamente più difficili. Però ho capito quello che intendi dire ed è la differenza tra pietà e finto pietismo, ed in effetti in Italia non stiamo messi tanto bene.
    La questione dell’inclusione è molto difficile e soprattutto è affrontata talmente male dalla scuola che quasi preferirei una scuola speciale nella quale possano crescere le competenze finalizzate al futuro e alla massima espressione di sè, tanto la vita non è fatta mai di un gruppo di coetanei – e un tempo si giocava nei cortili e si cresceva tra fratelli di tutte le età -, sul lavoro ci sono diverse generazioni; la scuola è nata per insegnare a leggere e a scrivere, ma oggi vuole anche educare in un contesto che non ricalca la vita e che va malissimo per i nostri bimbi.

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